La crisi dell'Europa

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PREAMBOLO


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UncleTom
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Trovo piuttosto strano che la redazione del gruppo di Torino abbia scelto di pubblicare ieri questo articolo.

Non perché non debbano pubblicare articoli della destra, se hanno un certo rilievo.

Ma perché gli interventi di Gian Micalessin su Il Giornale, negli ultimi mesi, non rispecchiano quel senso critico di indipendenza di giudizio, tanto par capirci, alla Sartori.

Vuoi perché appartiene alla schiera numerosa dei “Tengo famiglia”, vuoi perché il suo pensiero rispecchia quello del direttore Sallusti, Micalessin non mi sembra un campione dell’indipendenza di giudizio.

Può darsi che sullo Zar Putin abbia ragione ma a me sembra difficile potergli credere dopo la serie di articoli pubblicati negli ultimi mesi.

Questo è solo il mio punto di vista
.



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Proteste e bombe: Putin va abbattuto, con ogni mezzo
Scritto il 04/4/17 • nella Categoria: idee Condividi

Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi.

Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.
Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d’intelligence e media si muove ancora lungo le linee guida definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle “linee guida” vanno contestualizzate le dimostrazioni “anticorruzione” di Mosca guidate da Alexander Navalny. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d’iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle “rivoluzioni colorate” utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell’ex impero sovietico. Non a caso l’oppositore Navalny è stato per anni il referente del “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le “rivoluzioni colorate” sia la “rivolta anti-russa” in Ucraina. Accuse costate all’organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L’intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.
Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d’elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin. Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull’instabile linea di faglia tra zone d’influenza russe e americane, ancor più preoccupanti rischiano d’essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l’arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi, garantendo l’accordo per il rialzo dei prezzi del greggio. E sul fronte asiatico, dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino, è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017, dove sono in molti a sognare l’arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.
(Gian Micalessin, “Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti”, da “Il Giornale” del 4 aprile 2017).
UncleTom
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Ventotene: sogno federale, imperialismo reale Usa-Berlino


Scritto il 02/4/17 • nella Categoria: idee Condividi




È ed era del tutto irrazionale pensare che gli Stati Uniti permettano che l’Europa si unifichi e diventi così un loro concorrente globale. Gli Usa, a seguito della seconda guerra mondiale, mantengono tuttora una massiccia presenza militare di controllo in Germania, Italia, Belgio, Olanda e la mantengono a titolo di occupazione e controllo, non certo per difesa contro un Patto di Varsavia che non c’è più, anche se ora gli Usa si sforzano di spingere l’Europa al conflitto con la Russia lavorando sull’Ucraina. È invece razionale e confermato dai fatti che gli Stati Uniti usano la loro posizione di potenza occupante proprio per assicurarsi che quell’unificazione non avvenga. Per gli Usa, l’assetto conveniente dell’Europa non è federale, come quello sognato a Ventotene, ma un assetto in cui la principale potenza continentale, la Germania, saldamente controllata da Washington, saldamente antisolidale verso gli altri europei, domina politicamente ed economicamente questi ultimi, impone politiche restrittive e recessive che impediscano la loro crescita economica, difende una moneta con cambio alto sul dollaro che limiti la concorrenzialità europea, ed alimenta la disunione e le divergenze e contrapposizioni nel Vecchio Continente, per impedire che si unisca. E uomini di Goldman Sachs che controllano la Bce e, attraverso di esse, le banche centrali nazionali.

Tutto ciò semplicemente il loro interesse. Essi hanno realizzato, in effetti, una situazione in cui l’unificazione è stata resa definitivamente impossibile da due fattori: l’inclusione dell’Unione Europea di paesi troppo eterogenei come la Grecia, la Romania e la Bulgaria (e premevano per includere persino la Turchia!), per consentire un’integrazione economica e politica; l’euro e i suoi vincoli finanziari, che hanno trasferito il potere decisionale dai paesi debitori (condannati alla recessione-deindustrializzazione), e dalle istituzioni comunitarie, pressoché impotenti (perché prive di forza propria), alla potenza creditrice, cioè alla Germania. Quest’ultima ora da un lato è il paese più direttamente e tecnicamente controllato da Washington, anche attraverso il giuramento di fedeltà agli Usa che ogni cancelliere tedesco presta prima di assumere l’incarico (la “Kanzlerakte”, introdotta con trattato segreto il 21 aprile 1949, valido fino al 2099); dall’altro lato, si comporta nei confronti dei paesi più deboli, con la sua storicamente costante, aggressiva prepotenza, saccheggiandone le risorse finanziarie e industriali, soprattutto attraverso i prestiti predatori, appoggiata spesso dalla Francia, come ha fatto clamorosamente con Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia. E arrivando persino a cambiare i governi di alcuni di questi paesi per mettere loro fiduciari che assicurino i profitti criminali dei loro banchieri d’assalto.

“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titola il 13 luglio 2015 in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie, appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti di una strategia di dominazione.

La Germania di oggi è dunque rimasta, psicologicamente e politicamente, la Germania di Bismarck e delle due guerre mondiali, la Germania del suprematismo, della politica di potenza e minaccia, che si sente circondata da vicini minacciosi quindi costretta ad attaccare, sottomettere e sfruttare i suoi vicini per la propria sicurezza, oggi anche finanziaria, usando anche le istituzioni comunitarie. E con una tale Germania, che non è cambiata, in queste sue caratteristiche, dopo tutto ciò che ha passato, e che probabilmente non cambierà mai, così come con questo dominio statunitense, è a priori impossibile realizzare un’Europa unita, un’unione che sia qualcosa di diverso da uno strumento di dominio e sfruttamento di Berlino sugli altri. Quindi meglio restare indipendenti, come ha scelto il Regno Unito, ciascuno a custodire i propri interessi in modo trasparente, facendo liberi accordi con gli altri paesi, possibilmente su un piano di parità. Tanto, una guerra tra paesi europei è comunque impossibile dati i rapporti di forza, le interdipendenze economiche e finanziarie, la presenza di potenze nucleari, il controllo Usa. Non serve l’Ue, per assicurare la pace.

Alla luce dei precedenti storici e del fatto che i rapporti politici internazionali sono guidati dagli interessi particolari, concorrenziali e dai rapporti di forza e non da sentimenti, solidarietà e ideali, il Manifesto di Ventotene, col suo progetto federalista europeo, era già quando nacque un progetto irrealistico e infantile; la sua ingenuità è comprensibile e scusabile date le condizioni psicologiche dei suoi autori, che li potevano portare a scambiare il desiderabile con il realizzabile, a perdere il senso dell’utopia. Non è comprensibile né scusabile, per contro, anzi è atto di radicale disonestà culturale, l’insistere oggi su quel progetto come se fosse un progetto realistico e realizzabile, soprattutto realizzabile partendo dalla struttura istituzionale dell’Unione Europea, che non solo è corrotta, antidemocratica, burocraticamente demenziale e fallimentare in tutte le sue iniziative principali, dalla Pac in poi, ma per giunta è stata soppiantata ed espropriata da Berlino, che la ha ridotta a foglia di fico dal suo imperialismo continentale. Insistere in questi termini per l’”unificazione federalista europea” anziché denunciare e contrastare questa “Unione”, i suoi “progressi”, il suo “metodo comunitario”, assieme a questa politica di potenza tedesca, e agli effetti del loro combinato, è un agire per peggiorare le cose, un agire in mala fede, quindi una precisa colpa politica e morale.

(Marco Della Luna, “Ventotene: sono federale, imperialismo reale” dal blog di Della Luna del 31 agosto 2016).
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Euro, la Repubblica ceca sgancia la corona dalla moneta unica: addio al tasso fisso
di F. Q. | 10 aprile 2017

Zonaeuro
La decisione, arrivata dopo un meeting straordinario di politica monetaria, può far pensare a una rinuncia di Praga al suo dichiarato obiettivo di entrare nella moneta unica
di F. Q. | 10 aprile 2017



Più informazioni su: Euro, Repubblica Ceca, Unione Europea
Dalla Repubblica Ceca arriva un colpo alla stabilità dell’Eurozona. La Czech National Bank ha infatti deciso di sganciare la valuta locale, la corona ceca, dall’euro. La decisione è arrivata dopo un meeting straordinario di politica monetaria della banca nazionale ceca. Il tasso di riferimento della valuta nazionale, ancorato da tre anni a 27 corone per euro, sarà dunque abbandonato. Un segnale che potrebbe far pensare a una rinuncia di Praga al suo dichiarato obiettivo di entrare nella moneta unica.
Il tasso fisso con l’euro era stato adottato, in origine, per evitare l’eccessivo apprezzamento o deprezzamento della corona. La sospensione avrà come conseguenza che il tasso di cambio si sposterà a seconda della domanda e offerta sul mercato. La Banca nazionale ha scelto questa via ritenendola il male minore, dopo che la valuta ceca era finita nel mirino degli speculatori internazionali. Le turbolenze sul bilancio pubblico e la perdita di valore delle riserve ceche in valute forti hanno fatto il resto nello spingere Praga verso questa decisione.
Poi ci sono le ragioni politiche. L’esito incerto delle elezioni del prossimo autunno costringe il premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka a cercare di arrivare al momento della chiamata alle urne nelle migliori condizioni possibili. E in Repubblica Ceca l’Ue è vista da molti come un ente burocratico distante e improduttivo che minaccia la sovranità nazionale di Praga, con una conseguente bassa reputazione dell’euro. Il Paese però è allo stesso tempo fortemente integrato con le maggiori economie dell’Eurozona. Proprio per questo in molti si chiedono se lo sgancio della corona porterà davvero all’abbandono della strada verso la moneta unica e quali potranno essere gli effetti per l’economia europea.
di F. Q. | 10 aprile 2017
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Praga si sgancia dall’euro, nuovo schiaffo all’Unione Europea
Scritto il 11/4/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi

Addio euro.

Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma.

Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi.

La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro.

Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”.

Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica.

Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.

Finora, scrive Tarquini, il cambio minimo era stato adottato per impedire che rimesse e investimenti dei cittadini cèchi all´estero divenissero troppo cari e che il tasso d´inflazione, attualmente attestato al 2,5% annuo (cioè ben oltre il tetto del 2% fissato come obiettivo dall’istituto d´emissione di Praga) aumentasse ancora.

Adesso, la banca centrale cèca ha scelto come male minore lo sganciamento totale dall´euro. «La decisione ha un doppio sfondo», secondo “Repubblica”.

«Primo, le elezioni del prossimo autunno, il cui esito si annuncia incerto, e a cui il premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka vuole arrivare da posizioni della minor debolezza possibile.

Secondo, negli ultimi tempi la corona cèca era nel mirino degli speculatori internazionali.

I fondi hedge, in genere di carattere speculativo, hanno scommesso 65 miliardi di dollari su una rivalutazione della divisa cèca, costringendo la banca nazionale di Praga a interventi sui mercati. Turbolenze sul bilancio pubblico e sulle riserve in valuta cèche hanno spinto l’istituto alla misura estrema».

La decisione, aggiunge Tarquini, ricorda agli operatori dei mercati la scelta fatta nel gennaio 2015 dalla Svizzera (non membro della Ue) di sganciare il franco dall´euro, «scelta che provocò un terremoto finanziario internazionale colpendo l´euro con il piú massiccio deprezzamento da quando esiste».

Un ´Czexit´ limitato allo sgancio della corona dall’euro avrebbe conseguenze più limitate.

«Al momento, l´euro si è deprezzato a fronte della divisa cèca, restando però stabile sul dollaro.

Ma gli esperti si dividono sul grande interrogativo, se ciò potrà allontanare la piccola ma decisiva democrazia industriale centroeuropea dall’Unione in generale, a medio termine anche a livello politico».

A fronte del recente apprezzamento della corona verso l´euro, e quindi della perdita di valore delle riserve cèche in valute forti, Praga non ha visto altra scelta.

Uniche alternative? Massicce vendite delle riserve o un ingresso accelerato nell´euro.

Ma la moneta unica europea, specie nel gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria) appare sempre meno attraente.

E a Praga come altrove, all´Est, «la stessa Ue è vista da non pochi politici ed elettori come una lontana e inefficiente entità burocratica che può costituire una minaccia potenziale alla sovranità nazionale», che Praga ha riconquistato dopo mezzo secolo di dominazione dell’Urss.
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Sarà così???


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Terrorismo: Francia, una scheda elettorale li seppellirà

di Giampiero Gramaglia | 21 aprile 2017

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Sangue sui Campi Elisi. E sangue sul voto francese, il primo turno delle elezioni presidenziali, questa domenica. Ed è subito dibattito, più da noi che in Francia, su ‘a chi giova?’, con tutto l’intreccio nostrano d’interrogativi e contraddizioni e la tentazione in agguato del complotto.

C’è chi dice: gli integralisti attaccano adesso perché così favoriscono l’estrema destra e, quindi, inaspriscono, in prospettiva, lo scontro di civiltà e di religione, che è il loro scopo finale. E c’è chi invece dice: gli integralisti non hanno interesse a che vincano i loro più strenui nemici; e, dunque, non sono loro, anzi è tutta una macchinazione contro l’estrema destra.

Poi, l’autoproclamato Califfo e i portavoce del suo sedicente Stato islamico avallano l’azione e promuovono a martire l’assassino. Un punto fermo? Non proprio: al-Baghdadi o chi per lui arruola legioni di cadaveri di kamikaze e di esaltati, senza fare troppi distinguo sulle motivazioni e sull’impatto dei loro gesti.

Noi, invece, facciamo forse troppi distinguo. L’attacco di ieri sera è un atto terroristico, come quelli, per restare in Europa, di Nizza il 14 luglio, di Berlino al mercatino di Natale e di Londra sul ponte di Westminster: quali fossero esattamente gli obiettivi degli autori – seminare la paura, indurre all’odio, colpire simboli religiosi o dei valori di libertà e democrazia – forse non lo sapremo mai e, forse, non lo sapevano bene neppure loro.

Ma, in fondo, ha relativamente poca importanza. I terroristi della nostra Europa non sono emissari del Califfo in missione: sono gente cresciuta qui e indurita all’odio da esperienze d’emarginazione, di degrado, di criminalità e di carcere, prima ancora che da percorsi di radicalizzazione religiosa, che non sempre ci sono e, quando ci sono, appaiono spesso tardivi e frettolosi.

E dopo il 12 novembre 2015 a Parigi, la notte del Bataclan, o il 22 marzo 2016 a Bruxelles, l’aeroporto e la stazione del metro di Maelbeek, non sono neppure più ‘soldati’ addestrati e preparati in qualche ‘accademia terroristica’, ma sono autodidatti su internet di tecniche d’attacco magari rozze ma efficaci, veicoli come proiettili, armi individuali, persino machete e coltelli.

Uccidono con la consapevolezza degli obiettivi da centrare? Personalmente, ritengo che scelgano non a caso il teatro delle loro azioni letali, ma dubito che ne pianifichino le conseguenze, al di là della generazione di strascichi di paura, risentimento, diffidenza, odio, scontro. A sconfiggerli, ci penseranno domenica 23 aprile i cittadini francesi d’ogni credo politico e d’ogni confessione religiosa: ciascun voto espresso, quale che sia, sarà una scelta di libertà e democrazia, contro il medievale oscurantismo teo-ideologico e la violenza becera e cruenta. Una scheda li seppellirà.
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Re: La crisi dell'Europa

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Addio Merkel, euro e Nato: il voto francese cambia il mondo

Scritto il 22/4/17 • nella Categoria: idee Condividi




La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».

In un’analisi pubblicata sul suo blog, Dezzani colloca le presidenziali francesi in una più ampia cornice geopolitica: «Solo chi nascondesse la testa sotto terra, potrebbe infatti affermare che l’imminente voto sia scollegato dalle rinnovate tensioni tra Nato e Russia e dai venti di guerra nella Corea del Nord». La Francia ripropone il medesimo schema politico che travaglia l’intera Europa: i partiti tradizionali, «legati a doppio filo all’establishment euro-atlantico», riusciranno o meno a respingere l’assalto “populista”, cioè l’avanzata di quei movimenti che predicano ricette economiche e una politica estera diametralmente opposta a quella dell’oligarchia al potere? «La risposta è quasi certamente “no”», sostiene Dezzani. «Di fronte all’eurocrisi scoppiata nel lontano 2009 e progressivamente incancrenitasi avendo mancato l’obiettivo di fondo (strappare il Tesoro Unico europeo e gli Stati Uniti d’Europa)», la Francia «è scivolata giorno dopo giorno verso l’euro-periferia, mostrando l’illusorietà del “motore franco-tedesco”». A collocare il paese «più vicino al Mediterraneo che al Reno» è ormai, «la galoppante crescita del debito pubblico francese, che dall’introduzione dell’euro è passato dal 60% al 97% del Pil», insieme ad altri indicatori sfavorevoli: «Gli alti deficit in funzione anti-ciclica, il cronico disavanzo della bilancia commerciale e la disoccupazione record (quella ufficiale si attesta attorno al 10% della forza lavoro)».

Tra Parigi e Berlino, sottolinea Dezzani, c’è ancora una «parità formale», che attualmente scongiura quelle politiche di austerità imposte al resto dell’europeriferia: misure di austerity che potrebbero «innescare esplosive rivolte in una società come quella francese, abituata a ricevere generose prestazioni dallo Stato». Questo però «non impedisce che qualche “riforma strutturale” sia somministrata anche alla Francia: il “Job Act” gallico, la legge El Khomri, provoca reazioni impensabili in Italia, mobilitando sindacati e lavoratori per settimane e paralizzando diversi settori strategici dell’economia». L’assaggio di neoliberismo, il crescere incessante della disoccupazione e la parallela caduta verticale del presidente François Hollande in termini di popolarità, continua Dezzani, sono accompagnati dall’esplosione del terrorismo “islamista” che, avviato nel gennaio 2015 con la strage di Charlie Hebdo, semina morti fino alla strage di Nizza dello scorso luglio: «E’ la classica strategia della tensione utile a “sedare” un’opinione pubblica sul piede di guerra, a causa dell’impoverimento generalizzato e dei tagli allo Stato sociale».

La strategia della tensione, però, secondo Dezzani ha fallito: doveva «compattare i francesi attorno al capo di Stato», quell’Hollande che – dopo aver ripeuto che «la France est en guerre» – è il primo presidente, dall’avvento della Quinta Repubblica, a scegliere di “abdicare”, rinunciando a correre per un secondo mandato: «L’obiettivo è quello di arrestare l’avanzata dei “populisti”, relegando il quinquennio di Hollande ad una triste parentesi, e puntando su volti nuovi». Ma ormai, aggiunge Dezzani, la ribellione dell’elettorato è troppo impetuosa per essere incanalata: «Il “filo-russo” François Fillon conquista la candidatura del centro-destra battendo l’esponente dell’establishment, Alain Juppé. Segue quindi una feroce campagna mediatica-giudiziaria per stroncare la corsa di Fillon verso l’Eliseo e lanciare verso il ballottaggio del 7 maggio il centrista e “outisider” Emmanuel Macron, ex-banchiere Rothschild: il calcolo politico si basa sulla convinzione che tutti i voti moderati si coaguleranno attorno all’europeista e filo-atlantico Macron, sancendo così la sconfitta della populista e filo-russa Marine Le Pen».

Nella Francia del 2017, però, come nel resto dell’Occidente, i voti “moderati” sono ormai merce rara: «Il malessere diffuso, tre milioni di disoccupati (che salgono a sei considerando i lavoratori iscritti ad un corso di ricollocamento), l’insofferenza generalizzata verso la cricca di privilegiati che ruota attorno all’Eliseo e ai salotti buoni di Parigi, spinge l’elettorato sulle ali estreme dello schieramento politico: la candidatura del centrista Emmanuel Macron, presentato dalla maggior parte dei sondaggi e dei media compiacenti come il presidente in pectore, rischia di sgonfiarsi addirittura al primo turno, schiantandosi contro lo scoglio dell’elettorato». Ferma restando la possibile vittoria di Marine Le Pen, crescono infatti le probabilità che lo sfidante al ballottaggio del 7 maggio non sia l’ex-banchiere di Rothischild, ma il “populista rosso” Jean-Luc Mélenchon: storico esponente dell’ala sinistra del Partito socialista, fondatore del movimento “France insoumise” (la Francia ribelle). «Abile oratore e figura piuttosto carismatica, Mélenchon è la declinazione “giacobina” di Marine Le Pen». Tanti i tratti i comune: tra questi, «l’avversione all’ortodossia finanziaria di Bruxelles, l’intenzione di manovre fiscali espansive in forte deficit, il rifiuto dei dogmi liberisti e l’apertura al protezionismo».

In politica estera, Le Pen e Mélenchon condividono anche «l’intenzione di traghettare la Francia fuori dalla Nato», che dimostra «la volontà di riconciliarsi con Mosca superando le varie discrepanze, in primis sulla Siria». Dezzani scommette che sarà Marine Le Pen a uscire vincitrice dal ballottaggio del 7 maggio, sospinta da diversi fattori: la voglia di cancellare la disastrosa presidenza Hollande, la crisi migratoria, l’emergenza-sicurezza nelle città e il vento nazionalista, sempre più forte a livello europeo. «Nelle attuali condizioni in cui versa l’Unione Europea – ragiona Dezzani – è però chiaro che, se dalle urne del 23 aprile dovesse emergere una sfida tra forze anti-sistema di sinistra e di destra, Bruxelles incasserebbe il colpo di grazia anche senza conoscere il verdetto finale delle presidenziali francesi». Si tratta pur sempre di «istituzioni europee così lacerate da assistere inermi alla ribellione degli Stati alla politica migratoria comune, alla puntuale disapplicazione di norme fino a poco tempo fa presentate come ineludibili (Fiscal Compact e bail-in), al tramonto di qualsiasi ulteriore integrazione necessaria a garantire la sopravvivenza dell’euro (in primis la garanzia unica sui depositi)».

L’affermazione dei “populisti” Le Pen e Mélenchon al primo turno, continua Dezzani, «sancirebbe la rottura definitiva del motore franco-tedesco da tempo in panne». Rottura che, «aprendo una drammatica faglia nel cuore dell’Europa, porterebbe al collasso finale le già pericolanti istituzioni di Bruxelles». Al che, la dissoluzione dell’Unione Europea e il simultaneo ricollocamento di Parigi su posizioni filo-russe «sarebbero un vero terremoto geopolitico, scuotendo alle fondamenta l’intera architettura politico-militare consolidatasi in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: le istituzioni di Bruxelles, sinonimo di Ue ma anche di Nato, sono infatti lo strumento con cui l’impero angloamericano ha prima blindato, e poi allargato, la testa di ponte sul continente euroasiatico, conquistata con due guerre mondiali». Scopo strategico del blocco Ue-Nato, infatti, «è attrarre verso l’Atlantico il maggior numero possibile di potenze europee», impedendo «il sorgere di qualsiasi alleanza tra la Russia e l’Europa occidentale». Il terremoto sovranista francese, quindi, stravolgerebbe «la settantennale strategia dell’establishment atlantico sul Vecchio Continente, incentratala sulla cooperazione franco-tedesca con la benedizione di Londra e Washington, e sul progressivo ampliamento verso est delle organizzazioni “transatlantiche”».

Si materializzerebbe così il peggior scenario possibile per gli strateghi angloamericani, tratteggiato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “La Grande Scacchiera”, del 1997: vedremmo all’opera «una Francia nazionalista che, oppressa dall’egemonia della Germania schierata su posizioni filo-atlantiche, parte alla riconquista del primato continentale alleandosi con la Russia e riconoscendo a quest’ultima una legittima zona d’influenza nell’Est europeo». Sarebbe, in sostanza, «un patto franco-russo», progettato «per ridimensionare la Germania» e ridimensionare l’egemonia Usa sull’Europa. «Il quadro – aggiunge Dezzani – si farebbe ancora più drammatico per gli strateghi angloamericani se la Francia “nazionalista” non si saldasse soltanto alla Russia, ma al blocco euro-asiatico, che comprende anche la Cina e l’Iran e si irrobustisce giorno dopo giorno: la Francia, anziché lavorare per la caduta di Assad e il puntellamento del regime filo-saudita in Yemen, passerebbe così ad una condizione di neutralità o larvata ostilità nei confronti degli alleati regionali di Washington e Londra, compromettendo ulteriormente l’opera angloamericana di “contenimento” delle potenze euro-asiatiche».

Gli Usa a quel punto, «espulsi dalla massa continentale anche grazie alla cooperazione francese, perderebbero automaticamente lo status di superpotenza mondiale». Per Dezzani, stiamo assistendo al manifestarsi di «una doppia minaccia mortale per l’impero angloamericano: il saldarsi della coalizione tra Russia, Cina e Iran, unito al nascere di un’intesa franco-russa». Si tratta di «quattro potenze distinte, unite dalla comune volontà di archiviare l’egemonia degli Usa e dell’oligarchia atlantica, per ridisegnare l’assetto mondiale». Meglio si spiega, quindi, «il clima di elevata tensione internazionale, caratterizzato dal precipitare delle relazioni russo-americane e dai concomitanti venti di guerra in Corea». La posta in gioco, insiste Dezzani, «supera i confini dell’Esagono». La probabile vittoria di Marine Le Pen «è in grado di compromettere ulteriormente la presa angloamericana sull’Europa, a beneficio di Mosca e delle altre potenze continentali». Attenzione: questo scenario «lascia supporre un ulteriore aumento della tensione in vista del ballottaggio del 7 maggio e negli immediati mesi successivi al voto: più la Ue si sfalda e il blocco euroasiatico si ingrossa, maggiori sono i rischi che il sistema internazionale raggiunga il carico i rottura, imprimendo agli eventi quella drammatica svolta che si sarebbe evitata soltanto se Donald Trump avesse mantenuto le promesse neo-isolazioniste della campagna elettorale».
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Re: La crisi dell'Europa

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Gli austriaci sognano un Fuhrer
Apr 22, 2017
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Lorenzo Vita
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In Austria c’è un problema: un quarto della popolazione rimpiange o vorrebbe il Fuhrer. Non Hitler in sé per sé, ma un nuovo dittatore, o semplicemente un cosiddetto “uomo forte”. Un uomo che faccia e imponga leggi senza il controllo democratico ma semplicemente per la sua forza. Questo è quanto emerge da uno studio dell’Istituto SORA. Il centro viennese di studi sulla storia contemporanea ha, infatti, compiuto un sondaggio sulla popolazione per comprendere quanto questa fosse soddisfatta o meno della democrazia austriaca.

Ebbene, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il 25% della popolazione, quindi un cittadino su quattro, è così deluso dal sistema democratico che preferirebbe un nuovo Fuhrer, una dittatura, rispetto alla forma di governo attuale. Un quarto della popolazione austriaca ritiene che la democrazia abbia fallito, che vada superata, e che l’Austria debba essere qualcosa di diverso, con una forma di governo incentrata sul sistema di valori tipici della dittatura hitleriana. Dieci anni fa, alla medesima domanda, a rispondere in questo modo fu solo il 14% della popolazione. Un aumento di dieci punti in dieci anni: un elemento su cui dover riflettere.

Quasi metà della popolazione, il 43%, spera nella guida di un uomo forte per l’Austria. Qualcuno che in sostanza si sleghi dalle rigide ortodossie democratiche per lanciarsi nel campo dell’autocrazia. Rispetto a dieci anni fa, quando nel 2007 furono fatte le stesse domande, la percentuale non solo è rimasta alta, ma è anche aumentata. Nel 2007 era il 41%, oggi è aumentata di due punti percentuali.
C’è poi un’altra parte del sondaggio che riguarda espressamente il nazismo. Ed è altrettanto interessante poiché dimostra come sia cambiata la percezione che il popolo austriaco ha della sua storia dopo settant’anni dall’esperienza hitleriana e ottant’anni dall’Anschluss. Un terzo delle persone che hanno partecipato al questionario del SORA Institut ha dichiarato che il nazismo abbia avuto effetti positivi sull’Austria e che vi siano stati molti lati positivi nel governo nazionalsocialista.
In questo sondaggio, le persone che invece si sono detto soddisfatte del sistema democratico, sono state soltanto il 32%. Un dato preoccupante per la tenuta del sistema politico austriaco poiché l’Austria ha soltanto un terzo della popolazione che ritiene soddisfacente l’attuale ordinamento dello Stato.
In questo sondaggio, ciò che deve far riflettere non è tanto la risposta positiva alla percezione del sistema nazista, quanto l’incapacità del sistema democratico di creare, ormai da anni, un profondo senso di appartenenza ai suoi valori. L’Austria, così dilaniata dalle ultime elezioni, così divisa e così in preda spesso a paure remote figlie degli eventi, dimostra che il popolo, se impaurito, si rifugia nell’idealizzazione di un sistema dittatoriale. In sostanza si torna all’idea di origine della dittatura, quando in ambito romano si concedeva nelle mani di un uomo il potere dell’ordinamento dello Stato, per uscire da un momento di crisi o per risollevare le sorti di una guerra. L’idea che scaturisce da questo sondaggio è che, in fondo, l’Austria si senta, o almeno una sua parte, così insoddisfatta da cercare un nuovo orizzonte di valori e di ordinamento.
E nulla può vietare che, se il sondaggio si facesse in altri Paesi, il risultato non sarebbe poi così diverso. Se non addirittura più incline a nuovi sistemi di potere incentrati su un uomo solo e forte al comando.
UncleTom
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Re: La crisi dell'Europa

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UN MARZIANO A MILANO



I FRANZOSI, DOMANI NE TERRANNO CERTAMENTE CONTO DEL "PREZIOSO" CONSIGLIO DEL FARAONE TOTANBERLUSKONEN I:




1 ora fa
0


Berlusconi avverte i francesi:
"Molto negativo uscire dall'Ue"


Luca Romano
UncleTom
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Re: La crisi dell'Europa

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Elezioni in Francia, exit poll: “Macron in testa, seconda Le Pen”. Affluenza tiene: alle 17 era del 69,42%



Francia, elezioni presidenziali: Emmanuel Macron e la moglie al voto
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Chiamati al voto oltre 46 milioni di elettori, 50mila poliziotti ai seggi. Secondo la radio belga Rtbf il candidato di 'En Marche' è primo col 24% dei voti. Due punti in meno per la leader del Front National. Smentite per ora le previsioni sull'astensione
di F. Q. | 23 aprile 2017

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 224



Più informazioni su: Emmanuel Macron, Francia, François Fillon, Front National, Marine Le Pen

È il giorno del primo turno delle presidenziali in Francia, che sceglie chi andrà al ballottaggio il 7 maggio. E il primo exit poll, ottenuto a metà giornata dalla radio belga Rtbf, vede Emmanuel Macron – candidato di En Marche – al 24%, seguito dalla leader del Front National Marine Le Pen al 22%. Francois Fillon dei Républicains si fermerebbe al 20,5%, mentre Jean-Luc Melenchon della sinistra radicale al 18%. Ma oltre a loro, ci sono altri sette candidati: Benoit Hamon per i socialisti, Nathalie Artaud, François Asselineau, Jacques Cheminade, Nicolas Dupont-Aignan, Jean Lassalle, Philippe Poutou.

A differenza del primo dato dell’affluenza delle 12, che segnalava un lieve aumento rispetto al primo turno delle presidenziali del 2012, alle 17 il dato era del 69,42%, un punto in meno rispetto al 2012 (allora fu del del 70,59%), ma comunque un dato incoraggiante dopo le previsioni della vigilia secondo cui l’astensionismo sarebbe stato alto. Al voto sono chiamati 45,7 milioni di elettori, ai quali si aggiungono oltre un milione di residenti all’estero. I seggi, 66mila in tutto il Paese, sono aperti dalle 8 e chiudono alle 20. Considerati luoghi “vulnerabili” anche dai servizi segreti dopo l’attentato terroristico del 20 aprile, sono presidiati da oltre 50mila poliziotti.

VIDEO:
00:25
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04 ... 2/3538461/
Femen in protesta al seggio di Marine Le Pen – Nel feudo di Marine Le Pen, a Henin-Beaumont, la presidente del Front National, seconda nei sondaggi dell’ultima ora con il 22,5%, ha votato alle 11, regalando sorrisi ai responsabili del seggio e ripartendo a bordo di un Suv senza rilasciare dichiarazioni. Pochi istanti prima, abituale attacco delle Femen, il gruppo femminista che ha perseguitato la campagna della Le Pen: un’attivista a seno nudo è stata portata via di peso, poco dopo stesso trattamento per un ragazzo con uno zaino che stava protestando.
VIDEO
00:36
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04 ... 2/3538461/

Nessun disordine invece al seggio dove ha votato Emmanuel Macron, a Touquet, la spiaggia del nord considerata uno dei luoghi preferiti per le fughe al mare dei parigini. Il favorito (24,5% nell’ultimo sondaggio), leader di “En Marche!”, ha stretto molte mani sorridendo, concedendosi anche per qualche selfie. Abituale voto a Tulle, il suo feudo elettorale, per il presidente uscente, il socialista Francois Hollande, il primo nella Quinta repubblica a non ripresentarsi candidato dopo un mandato. Si tratta anche delle prime elezioni in stato d’emergenza, in vigore in Francia dagli attacchi del 13 novembre 2015. Il clima è diventato più teso da quando, nell’ultima settimana, sono stati scoperti a Marsiglia due terroristi che preparavano un attentato contro un candidato e, soprattutto, dopo l’attentato di giovedì sera sugli Champs-Elysees, nel quale un presunto jihadista della banlieue parigina ha ucciso il poliziotto Xavier Jugele.
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