La crisi dell'Europa

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UncleTom
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Re: La crisi dell'Europa

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Incendio Londra, materiale usato per il rivestimento del grattacielo era proibito
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Tgcom24

Redazione Tgcom24

19 minuti fa




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Il materiale utilizzato per il rivestimento della Grenfell Tower di Londra, distrutta da un incendio, era stato dichiarato "proibito" in Gran Bretagna. Lo ha detto il ministro britannico dell'Economia, Philip Hammond. Secondo i media locali, le fiamme si sarebbero propagate rapidamente perché il rivestimento della torre conteneva polietilene, un materiale infiammabile.

Quel materiale, precisa Hammond, è proibito "in Europa, nel Regno Unito e negli Stati Uniti". Un ulteriore elemento di polemica nella vicenda della torre, su cui monta la protesta di familiari delle vittime e sfollati.

Sfollati e "case da requisire" - E proprio sui sopravvissuti alla tragedia rimasti senza casa il leader dei Laburisti Jeremy Corbin insiste sulla proposta di ospitarli nelle molte case londinesi lasciate sfitte da investitori che puntano su un mercato immobiliare altamente speculativo.

"C'è un gran numero di appartamenti e proprietà lasciate deliberatamente vuote da gente con molto denaro nel quadro di quello che viene chiamato 'land's banking'", denuncia Corbyn intervistato nel talk show domenicale di Robert Peston sull'Itv. Poi elenca possibili azioni: "Occuparle, sottoporle a obbligo di vendita, requisirle. Ci sono molte cose che si posso fare e su cui, noi, l'intera società, dobbiamo riflettere".

Il governo Tory, da parte sua, ha già risposto picche. E annuncia semmai l'invio di un proprio "team" per mettere di fatto sotto tutela il Consiglio locale di Kensington and Chelsea sulla distribuzione degli aiuti e la diffusione di informazioni, finora inefficienti secondo le proteste della gente.





ALTRO SU MSN:

Londra, incendio in un grattacielo: diversi morti (Blitz Tv)

http://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ ... spartandhp
UncleTom
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MERLOCRAZIA FRANZOSA, … MAL COMUNE MEZZO GAUDIO?????????????????????????????????






(Aldo Giannuli, “La popolarità di Macron è in discesa precipitosa: ma va! Ma non mi dire!!”, dal blog di Giannuli del 26 luglio 2016).


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Crolla il nano Macron (non Putin, il Papa, Xi Jinping: giganti)

Scritto il 31/7/17 • nella Categoria: idee Condividi
Ad aprile, quando Macron fu trionfalmente eletto con il 62% dei voti, feci una scommessa: che la popolarità del nuovo e brillante capo di Stato della Francia sarebbe durata anche meno di quella di Hollande, per non dire di Sarkozy.

Mi pare di aver vinto la scommessa: i sondaggi, a solo un mese dalle politiche che gli hanno regalato una maggioranza inaudita, la sua popolarità è calata di colpo di 10 punti.

Peggio di lui solo Chirac nel 1995, ma il povero Chirac doveva reggere il confronto con un grande presidente come Mitterrand, mentre Macron deve confrontarsi solo con quell’ectoplasma di Hollande.

Eppure credo che i francesi non sappiano apprezzare le qualità di questo nuovo presidente: ad esempio sceglie bene le scarpe, osservatele bene.

Il quadro europeo attuale è questo: Inghilterra premier la May che non è sopportata neppure dal suo partito, Francia Macron di cui s’è detto, Spagna Rajoy che regge solo perché gli spagnoli si sono stufati di votare a ripetizione, Italia sede vacante e, in mezzo a tutti questi, la Merkel che, pur essendo una discreta massaia che eccelle nel bucato, sembra Bismarck.

Peraltro va detto che dopo di lei sarà il diluvio perché si scorge solo una folla di mediocri ciabattini.

Degli Stati Uniti non vale neppure la pena di dire.

Ormai il ceto politico europeo sembra Biancaneve e i sette nani, dove anche Biancaneve è un po’ rachitica.

Mi pare che sia arrivato il momento di porci qualche domanda: ma come mai stiamo selezionando un personale politico così scalcinato e che si preannuncia sempre peggiore?

E per di più dopo che c’è stata l’esaltazione dell’uomo solo al comando, del leader carismatico e via dicendo.

Bel risultato, parlare di uomo forte, di condottiero e trovarsi con questa schiera di molluschi andati a male!

Ma il punto è proprio questo: la retorica dell’uomo forte è uno degli ingredienti del disastro, perché ha spostato tutta l’attenzione sulle caratteristiche eccezionali del leader, riducendo i partiti a mere appendici elettorali. In Italia siamo stati all’avanguardia producendo porcherie impresentabili come Forza Italia o il Pd, ma anche gli altri stanno messi decisamente male.

Dove è più la Spd di un tempo, con i suoi rapporti di massa e i suoi centri studi?

E che fine ha fatto il Ps francese, che un tempo ferveva di dibattiti politici e culturali? Solo comitati elettorali animati da piccoli faccendieri o, al massimo, qualche onesto funzionario di periferia.

I partiti europei non producono più idee, non formano classi dirigenti, non organizzano conflitto sociale.

Raccolgono solo voti sull’immagine del leader di turno.

Ma un leader carismatico, per definizione, è un materiale umano un po’ raro e non si inventa.

Sarebbe come dire “adesso ci serve un Leonardo da Vinci, cerchiamo chi fa da Leonardo”.

Solo che di Leonardo o di Napoleone ne nascono uno ogni tanto e non è affatto detto che ogni tempo ne abbia a disposizione qualcuno.

E allora che si fa? Si costruisce quel che manca, o meglio, si costruisce l’immagine dell’uomo eccezionale che ci guiderà nei prossimi anni: “Vedrete, questo sarà migliore di tutti gli altri che lo hanno preceduto!”.

E i media si mettono al lavoro per inventarsi il nuovo Napoleone: e ci riescono, nel senso che producono una emozione collettiva che dura il tempo di una campagna elettorale. Passato il giorno del voto, nel giro di qualche mese (a volte settimane) la parure da grande condottiero crolla come cartapesta sotto la pioggia e viene fuori il nanerottolo che stava sotto il trucco.

I nostri leader sono solo prodotti da laboratorio pubblicitario.

Ormai operiamo la selezione del ceto politico sulla base della “capacità comunicativa” del prodotto da vendere.

Direte: ma quando uno non ha niente da dire, come fa a comunicare?

Non è importante che dica qualcosa, ma che dia la sensazione di farlo; e per questo è più importante la pausa, il piglio deciso, il gesto con cui accende una sigaretta, la battuta studiata a tavolino ma recitata con naturalezza, il sorriso seduttore e la grinta da domatore di belve.

L’importante è che “buchi il video”.

Semplicemente noi non stiamo cercando un grande stratega, ma l’attore che, per qualche settimana, può vestirne i panni.

In questo la televisione è stata un castigo di Dio che ha potenziato tutte queste pulsioni verso il nulla (mi torna in mente il Popper di “Cattiva maestra televisione”).

Facciamo una controprova di quel che dico: proviamo a indicare tre personaggi di cui oggi possiamo dire, sul piano internazionale, che emergono come grandi decisori, in grado di esercitare un peso sulla scena internazionale.

Io vi propongo Putin, Xi Jinping e Papa Francesco.

Sia chiaro che questo non significa condividere gli orientamenti di ciascuno o anche solo di uno di essi, ma solo una valutazione delle capacità politiche al netto di ogni altra considerazione.

Poi mi direte se la triade è ben scelta o meno.

E la prima considerazione che viene da fare è che questi tre personaggi hanno alle spalle grandi istituzioni, con una storia molto consolidata, con gruppi dirigenti reali: il partito comunista sovietico e il Kgb-Fsb per Putin (che si è formato in epoca sovietica), il Partito Comunista Cinese per Xi Jinping e la Chiesa cattolica per Papa Bergoglio.

Strutture elitarie (certamente non democratiche) con apparati pesanti e una selezione durissima.

In strutture del genere si imparano tante cose, soprattutto si impara che la politica è un’arte che chiede intelligenza, visione ampia a livello mondiale, densità strategica, tempismo, duttilità, intuito, eccetera.

Anche semplicemente per scansare la tisana corretta al cianuro (cosa che ha la sua importanza in questi ambienti) ci vogliono queste capacità.

E il risultato è una classe dirigente forse cinica, non sempre all’altezza dei suoi compiti; comunque, mediamente si tratterà di un personale politico di spessore (anche se questo non garantisce da momenti di decadenza).

Non sono un estimatore dell’elitismo e spero sempre in classi dirigenti frutto di una selezione democratica, ma questa attuale è solo una caricatura della democrazia.


(Perl'appunto. UNA MERLOCRAZIA-ndt)




(Aldo Giannuli, “La popolarità di Macron è in discesa precipitosa: ma va! Ma non mi dire!!”, dal blog di Giannuli del 26 luglio 2016).
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UncleTom ha scritto:MERLOCRAZIA FRANZOSA, … MAL COMUNE MEZZO GAUDIO?????????????????????????????????






(Aldo Giannuli, “La popolarità di Macron è in discesa precipitosa: ma va! Ma non mi dire!!”, dal blog di Giannuli del 26 luglio 2016).


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Ad aprile, quando Macron fu trionfalmente eletto con il 62% dei voti, feci una scommessa: che la popolarità del nuovo e brillante capo di Stato della Francia sarebbe durata anche meno di quella di Hollande, per non dire di Sarkozy.

Mi pare di aver vinto la scommessa: i sondaggi, a solo un mese dalle politiche che gli hanno regalato una maggioranza inaudita, la sua popolarità è calata di colpo di 10 punti.

Peggio di lui solo Chirac nel 1995, ma il povero Chirac doveva reggere il confronto con un grande presidente come Mitterrand, mentre Macron deve confrontarsi solo con quell’ectoplasma di Hollande.

Eppure credo che i francesi non sappiano apprezzare le qualità di questo nuovo presidente: ad esempio sceglie bene le scarpe, osservatele bene.

Il quadro europeo attuale è questo: Inghilterra premier la May che non è sopportata neppure dal suo partito, Francia Macron di cui s’è detto, Spagna Rajoy che regge solo perché gli spagnoli si sono stufati di votare a ripetizione, Italia sede vacante e, in mezzo a tutti questi, la Merkel che, pur essendo una discreta massaia che eccelle nel bucato, sembra Bismarck.

Peraltro va detto che dopo di lei sarà il diluvio perché si scorge solo una folla di mediocri ciabattini.

Degli Stati Uniti non vale neppure la pena di dire.

Ormai il ceto politico europeo sembra Biancaneve e i sette nani, dove anche Biancaneve è un po’ rachitica.

Mi pare che sia arrivato il momento di porci qualche domanda: ma come mai stiamo selezionando un personale politico così scalcinato e che si preannuncia sempre peggiore?

E per di più dopo che c’è stata l’esaltazione dell’uomo solo al comando, del leader carismatico e via dicendo.

Bel risultato, parlare di uomo forte, di condottiero e trovarsi con questa schiera di molluschi andati a male!

Ma il punto è proprio questo: la retorica dell’uomo forte è uno degli ingredienti del disastro, perché ha spostato tutta l’attenzione sulle caratteristiche eccezionali del leader, riducendo i partiti a mere appendici elettorali. In Italia siamo stati all’avanguardia producendo porcherie impresentabili come Forza Italia o il Pd, ma anche gli altri stanno messi decisamente male.

Dove è più la Spd di un tempo, con i suoi rapporti di massa e i suoi centri studi?

E che fine ha fatto il Ps francese, che un tempo ferveva di dibattiti politici e culturali? Solo comitati elettorali animati da piccoli faccendieri o, al massimo, qualche onesto funzionario di periferia.

I partiti europei non producono più idee, non formano classi dirigenti, non organizzano conflitto sociale.

Raccolgono solo voti sull’immagine del leader di turno.

Ma un leader carismatico, per definizione, è un materiale umano un po’ raro e non si inventa.

Sarebbe come dire “adesso ci serve un Leonardo da Vinci, cerchiamo chi fa da Leonardo”.

Solo che di Leonardo o di Napoleone ne nascono uno ogni tanto e non è affatto detto che ogni tempo ne abbia a disposizione qualcuno.

E allora che si fa? Si costruisce quel che manca, o meglio, si costruisce l’immagine dell’uomo eccezionale che ci guiderà nei prossimi anni: “Vedrete, questo sarà migliore di tutti gli altri che lo hanno preceduto!”.

E i media si mettono al lavoro per inventarsi il nuovo Napoleone: e ci riescono, nel senso che producono una emozione collettiva che dura il tempo di una campagna elettorale. Passato il giorno del voto, nel giro di qualche mese (a volte settimane) la parure da grande condottiero crolla come cartapesta sotto la pioggia e viene fuori il nanerottolo che stava sotto il trucco.

I nostri leader sono solo prodotti da laboratorio pubblicitario.

Ormai operiamo la selezione del ceto politico sulla base della “capacità comunicativa” del prodotto da vendere.

Direte: ma quando uno non ha niente da dire, come fa a comunicare?

Non è importante che dica qualcosa, ma che dia la sensazione di farlo; e per questo è più importante la pausa, il piglio deciso, il gesto con cui accende una sigaretta, la battuta studiata a tavolino ma recitata con naturalezza, il sorriso seduttore e la grinta da domatore di belve.

L’importante è che “buchi il video”.

Semplicemente noi non stiamo cercando un grande stratega, ma l’attore che, per qualche settimana, può vestirne i panni.

In questo la televisione è stata un castigo di Dio che ha potenziato tutte queste pulsioni verso il nulla (mi torna in mente il Popper di “Cattiva maestra televisione”).

Facciamo una controprova di quel che dico: proviamo a indicare tre personaggi di cui oggi possiamo dire, sul piano internazionale, che emergono come grandi decisori, in grado di esercitare un peso sulla scena internazionale.

Io vi propongo Putin, Xi Jinping e Papa Francesco.

Sia chiaro che questo non significa condividere gli orientamenti di ciascuno o anche solo di uno di essi, ma solo una valutazione delle capacità politiche al netto di ogni altra considerazione.

Poi mi direte se la triade è ben scelta o meno.

E la prima considerazione che viene da fare è che questi tre personaggi hanno alle spalle grandi istituzioni, con una storia molto consolidata, con gruppi dirigenti reali: il partito comunista sovietico e il Kgb-Fsb per Putin (che si è formato in epoca sovietica), il Partito Comunista Cinese per Xi Jinping e la Chiesa cattolica per Papa Bergoglio.

Strutture elitarie (certamente non democratiche) con apparati pesanti e una selezione durissima.

In strutture del genere si imparano tante cose, soprattutto si impara che la politica è un’arte che chiede intelligenza, visione ampia a livello mondiale, densità strategica, tempismo, duttilità, intuito, eccetera.

Anche semplicemente per scansare la tisana corretta al cianuro (cosa che ha la sua importanza in questi ambienti) ci vogliono queste capacità.

E il risultato è una classe dirigente forse cinica, non sempre all’altezza dei suoi compiti; comunque, mediamente si tratterà di un personale politico di spessore (anche se questo non garantisce da momenti di decadenza).

Non sono un estimatore dell’elitismo e spero sempre in classi dirigenti frutto di una selezione democratica, ma questa attuale è solo una caricatura della democrazia.


(Perl'appunto. UNA MERLOCRAZIA-ndt)




(Aldo Giannuli, “La popolarità di Macron è in discesa precipitosa: ma va! Ma non mi dire!!”, dal blog di Giannuli del 26 luglio 2016).


Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, da oltre Atlantico alla vecchia Europa, allo Stivalone afflosciato taglia,……taglia,……taglia la classe dirigente, per proporre solo piazzisti di seconda mano duttili e manovrabili, non è che la sovra gestione si è tagliata i Cabasisi?????????????????????
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Re: La crisi dell'Europa

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Bank of America: l’Europa è spacciata, rottamata dall’euro
Scritto il 03/8/17 • nella Categoria: segnalazioni
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L’Eurozona è probabilmente destinata a crollare, non importa quanti tentativi vogliano fare la Francia e la Germania per cercare di salvarla: così avverte una delle più grandi banche di investimento del mondo.

Un funzionario di alto grado della Bank of America Merrill Lynch ha detto che il blocco di paesi della moneta unica ha iniziato a cadere a pezzi fin dal momento stesso in cui è stato fondato quasi 20 anni fa.

Nonostante diversi paesi tra cui Grecia e Portogallo abbiano ricevuto aiuti di emergenza durante la crisi finanziaria, i paesi più ricchi come la Germania non hanno affatto redistribuito la ricchezza in modo permanente verso i paesi più poveri dell’Eurozona.

Athanasios Vamvakidis, che ha lavorato a Londra per il Fondo Monetario Internazionale per 13 anni prima di essere assunto dalla banca americana, ha detto che questo ha spinto i paesi membri a divergere e ha accresciuto la disuguaglianza.

Sebbene questa situazione sia temporaneamente mutata durante la crisi finanziaria globale, ha detto che «le divergenze sembrano essere la normalità fin dal momento in cui l’Eurozona è stata creata».

Descrivendola come «una bandiera rossa di allarme sulla sostenibilità dell’Eurozona», Vamvakidis avverte che i paesi più poveri potrebbero decidere di separarsi dal blocco dell’Eurozona nel momento in cui dovessero cadere ancora più a fondo nel tunnel del debito.

«Questi paesi non vorrebbero, a un certo punto, poter disporre della propria politica monetaria?

Il populismo non troverebbe nella moneta unica un facile bersaglio – come sta già accadendo in alcuni paesi?».

E aggiunge: «Senza la crescita, il debito si potrebbe dimostrare insostenibile, per alcuni paesi, e il populismo contro l’Eurozona potrebbe trovare sostegno, fino a portare all’uscita di quei paesi che sono stati lasciati indietro.

La probabilità che un paese, sia esso del centro o della periferia, possa a un certo punto nel futuro decidere di abbandonare l’Eurozona sotto un governo populista non è bassa, a nostro avviso».

Emmanuel Macron, il presidente francese pro-Bruxelles, ha proposto riforme incisive per salvaguardare il blocco della moneta unica, tra cui l’introduzione di un nuovo bilancio comune.

La Germania, che in tal caso dovrebbe finanziare cifre spropositate di spesa extra, ha reagito in modo cauto alla proposta.

Ma Vamvakidis dice che anche uno dei paesi più ricchi potrebbe a sua volta decidere di uscire dall’Eurozona, perché il trasferimento di ricchezza verso i paesi più poveri potrebbe non essere «politicamente fattibile».

Aggiunge che «perfino in uno scenario ideale», in cui queste riforme venissero introdotte, «l’Eurozona potrebbe essere ancora a rischio, in caso di persistente mancanza di convergenza».

La prognosi fa eco a quella dell’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, che ha detto che una moneta “a taglia unica” è destinata al fallimento.

(James Salmon, “L’Eurozona è condannata, non importa cosa facciano Francia e Germania, avverte un funzionario della Bank of America”, dal “Daily Mail” del 15 luglio 2017, articolo tradotto da “Voci dall’Estero”).
UncleTom
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Re: La crisi dell'Europa

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EFFETTI COLLATERALI






Attentato Barcellona, finita concordia nazionale
Ministro distingue tra morti ‘catalani’ e ‘spagnoli’




Prima la lite sulla cellula “smantellata” per il governo Rajoy, smentito dalla Generalitat. Poi il distinguo del titolare dell’Interno sulle vittime. E’ di nuovo scontro, a 40 giorni dal referendum sull’indipendenza




Mondo

Neanche il tempo di versare le ultime lacrime sulle 14 vittime della follia stragista di Moussa Oubakir e dei suoi complici. La fotografia in cui il premier spagnolo Mariano Rajoy, Re Felipe IV e il presidente catalano Carles Puidgemont posavano insieme a testimoniare che la Spagna è un Paese unito davanti alla strage di Barcellona è sbiadita di colpo. A poco più di un mese dal referendum sull’indipendenza della Catalogna, il governo di Madrid e la Generalitat sono tornati sulle barricate
di F. Q.
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Re: La crisi dell'Europa

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Rivoluzione colorata: l’imbroglio Macron seppellirà i francesi
Scritto il 28/8/17 • nella Categoria: idee
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Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».
L’opinione pubblica, senza eccezioni, «reagisce sostenendo la “rottamazione”: tutto quel che è vecchio è corrotto, mentre tutto quel che è nuovo è giusto e buono», scrive Meyssan. «Tuttavia, non c’erano basi per dimostrare nessuno dei crimini di cui tutti stavano parlando». E’ uno schema, che funziona sempre: «Nelle rivoluzioni colorate precedenti, l’opinione pubblica ci metteva tra i tre mesi (la Rivoluzione dei Cedri in Libano) e i due anni (la Rivoluzione delle Rose in Georgia) prima di svegliarsi e scoprire di essere stata manipolata». L’arte di coloro che organizzano le “rivoluzioni colorate” consiste «nel realizzare senza aspettare un istante tutti i cambiamenti che i loro sponsor intendevano operare nelle istituzioni». Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild, ha annunciato in anticipo le sue intenzoni: riforma d’urgenza del Codice del Lavoro, modifica del Consiglio economico e sociale, dimezzamento del numero degli eletti a tutti i livelli, nonché “moralizzazione” della vita politica. Tutti questi progetti, osserva Meyssan, ricalcano il solco tracciato dalla relazione pubblicata dalla Commissione per la liberalizzazione della crescita francese del 2008, di cui era presidente Jacques Attali, mentre Emmanuel Macron era il vice segretario generale.
Il rapporto della Commissione Attali (creata dal presidente Sarkozy) inizia con queste parole: «Questo non è un rapporto, né uno studio, ma un manuale per le riforme urgenti e fondanti. Non è né partisan né bi-partisan: è non partisan». Per quanto riguarda il codice del lavoro, scrive Meyssan, «si punta ad abbandonare il sistema giuridico romano e alla sua sostituzione con il sistema attualmente in vigore negli Stati Uniti: un dipendente e il suo padrone potrebbero così entrare in negoziati bilaterali e concludere un contratto in contrasto con la legge». E il sistema educativo «dovrà produrre studenti bilingui (francese/inglese) già alla fine della scuola primaria». Eppure, aggiunge l’analista, questo cambiamento di paradigma non è mai stato discusso in Francia: «Tutt’al più, è stato evocato durante i dibattiti parlamentari sulla legge El-Khomri/Macron del 2016», detta anche “Loi Travail”, che di fatto “americanizza” la situazione, come il Jobs Act renziano in Italia. E le riforme istituzionali annunciate da Macron? «Nessuna di esse era attesa dai francesi», nonostante una certa insofferenza per «la stratificazione amministrativa (Comuni, Comunità di Comuni, Dipartimenti, Regioni, Stato) e la proliferazione di commissioni inconcludenti».
In realtà, sostiene Meyssan, «il presidente Macron avanza indossando una maschera». E spiega: «Il suo obiettivo a medio termine, ampiamente annunciato nel 2008, è quello di abolire Comuni e Dipartimenti. Si tratta di omogeneizzare le collettività locali francesi con il modello già imposto ovunque in altri paesi dall’Unione Europea. L’Eliseo, nel rifiutare l’esperienza storica del popolo francese, considera che possa essere governato come tutti gli altri europei». La riforma del Consiglio economico e sociale, invece, «rimane vaga». Tuttalpiù, «sappiamo che si tratterebbe sia di sciogliere le innumerevoli commissioni inutili, sia di affidargli il dialogo sociale». Aggiunge Meyssan: «Il fallimento di Charles de Gaulle nel raggiungere questo obiettivo nel 1969 ci fa pensare che, qualora questa riforma venisse realizzata, non sarebbe per risolvere un problema, ma per seppellirlo una volta per tutte». In realtà, la proposta di riforma del Codice del Lavoro «priverà questo dialogo del suo oggetto concreto». Nel 1969, ricorda Meyssan, il presidente de Gaulle «si era rassegnato ad abbandonare ancora una volta il suo vecchio progetto di “partecipazione”, cioè di ridistribuzione della crescita del capitale delle imprese tra i loro proprietari e i loro lavoratori», e in cambio aveva proposto «di far partecipare il mondo del lavoro al processo legislativo».
Per farlo, de Gaulle aveva pensato di fondere il Consiglio economico e sociale con il Senato, in modo che la Camera Alta riunisse sia i rappresentanti regionali sia quelli del mondo professionale. In particolare, aveva proposto che questa Camera non potesse più redigere essa stessa le leggi, ma che emettesse un parere su ogni testo prima che questo fosse discusso dall’Assemblea Nazionale. «Si trattava dunque di concedere un potere che consisteva in un parere legislativo alle organizzazioni rurali e cittadine, ai sindacati degli operai e del padronato, alle università, alle associazioni familiari, sociali e culturali». Macron si sta muovendo in direzione opposta. Le due priorità che il neopresidente intende perseguire «prima che i suoi elettori si risveglino» possono essere riassunte come segue: «Reggere il mercato del lavoro secondo i principi dell’ordinamento giuridico statunitense; conformare gli enti locali alle norme europee e incistare le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro in un assemblea puramente onorifica. Oltre a cancellare (a vantaggio dei soli capitalisti) qualsiasi traccia proveniente da diversi secoli di lotte sociali, Emmanuel Macron dovrebbe quindi allontanare gli eletti dai loro elettori e scoraggiare questi ultimi dall’impegnarsi nella cosa pubblica».
Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».
L’opinione pubblica, senza eccezioni, «reagisce sostenendo la “rottamazione”: tutto quel che è vecchio è corrotto, mentre tutto quel che è nuovo è giusto e buono», scrive Meyssan. «Tuttavia, non c’erano basi per dimostrare nessuno dei crimini di cui tutti stavano parlando». E’ uno schema, che funziona sempre: «Nelle rivoluzioni colorate precedenti, l’opinione pubblica ci metteva tra i tre mesi (la Rivoluzione dei Cedri in Libano) e i due anni (la Rivoluzione delle Rose in Georgia) prima di svegliarsi e scoprire di essere stata manipolata». L’arte di coloro che organizzano le “rivoluzioni colorate” consiste «nel realizzare senza aspettare un istante tutti i cambiamenti che i loro sponsor intendevano operare nelle istituzioni». Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild, ha annunciato in anticipo le sue intenzoni: riforma d’urgenza del Codice del Lavoro, modifica del Consiglio economico e sociale, dimezzamento del numero degli eletti a tutti i livelli, nonché “moralizzazione” della vita politica. Tutti questi progetti, osserva Meyssan, ricalcano il solco tracciato dalla relazione pubblicata dalla Commissione per la liberalizzazione della crescita francese del 2008, di cui era presidente Jacques Attali, mentre Emmanuel Macron era il vicesegretario generale.
Il rapporto della Commissione Attali (creata dal presidente Sarkozy) inizia con queste parole: «Questo non è un rapporto, né uno studio, ma un manuale per le riforme urgenti e fondanti. Non è né partisan né bi-partisan: è non partisan». Per quanto riguarda il codice del lavoro, scrive Meyssan, «si punta ad abbandonare il sistema giuridico romano e alla sua sostituzione con il sistema attualmente in vigore negli Stati Uniti: un dipendente e il suo padrone potrebbero così entrare in negoziati bilaterali e concludere un contratto in contrasto con la legge». E il sistema educativo «dovrà produrre studenti bilingui (francese/inglese) già alla fine della scuola primaria». Eppure, aggiunge l’analista, questo cambiamento di paradigma non è mai stato discusso in Francia: «Tutt’al più, è stato evocato durante i dibattiti parlamentari sulla legge El-Khomri/Macron del 2016», detta anche “Loi Travail”, che di fatto “americanizza” la situazione, come il Jobs Act renziano in Italia. E le riforme istituzionali annunciate da Macron? «Nessuna di esse era attesa dai francesi», nonostante una certa insofferenza per «la stratificazione amministrativa (Comuni, Comunità di Comuni, Dipartimenti, Regioni, Stato) e la proliferazione di commissioni inconcludenti».
In realtà, sostiene Meyssan, «il presidente Macron avanza indossando una maschera». E spiega: «Il suo obiettivo a medio termine, ampiamente annunciato nel 2008, è quello di abolire Comuni e Dipartimenti. Si tratta di omogeneizzare le collettività locali francesi con il modello già imposto ovunque in altri paesi dall’Unione Europea. L’Eliseo, nel rifiutare l’esperienza storica del popolo francese, considera che possa essere governato come tutti gli altri europei». La riforma del Consiglio economico e sociale, invece, «rimane vaga». Tuttalpiù, «sappiamo che si tratterebbe sia di sciogliere le innumerevoli commissioni inutili, sia di affidargli il dialogo sociale». Aggiunge Meyssan: «Il fallimento di Charles de Gaulle nel raggiungere questo obiettivo nel 1969 ci fa pensare che, qualora questa riforma venisse realizzata, non sarebbe per risolvere un problema, ma per seppellirlo una volta per tutte». In realtà, la proposta di riforma del Codice del Lavoro «priverà questo dialogo del suo oggetto concreto». Nel 1969, ricorda Meyssan, il presidente de Gaulle «si era rassegnato ad abbandonare ancora una volta il suo vecchio progetto di “partecipazione”, cioè di ridistribuzione della crescita del capitale delle imprese tra i loro proprietari e i loro lavoratori», e in cambio aveva proposto «di far partecipare il mondo del lavoro al processo legislativo».
Per farlo, de Gaulle aveva pensato di fondere il Consiglio economico e sociale con il Senato, in modo che la Camera Alta riunisse sia i rappresentanti regionali sia quelli del mondo professionale. In particolare, aveva proposto che questa Camera non potesse più redigere essa stessa le leggi, ma che emettesse un parere su ogni testo prima che questo fosse discusso dall’Assemblea Nazionale. «Si trattava dunque di concedere un potere che consisteva in un parere legislativo alle organizzazioni rurali e cittadine, ai sindacati degli operai e del padronato, alle università, alle associazioni familiari, sociali e culturali». Macron si sta muovendo in direzione opposta. Le due priorità che il neopresidente intende perseguire «prima che i suoi elettori si risveglino» possono essere riassunte come segue: «Reggere il mercato del lavoro secondo i principi dell’ordinamento giuridico statunitense; conformare gli enti locali alle norme europee e incistare le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro in un assemblea puramente onorifica. Oltre a cancellare (a vantaggio dei soli capitalisti) qualsiasi traccia proveniente da diversi secoli di lotte sociali, Emmanuel Macron dovrebbe quindi allontanare gli eletti dai loro elettori e scoraggiare questi ultimi dall’impegnarsi nella cosa pubblica».
cielo 70
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Re: La crisi dell'Europa

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Pure in Italia hanno soppresso le province. Mi ricordo che nella nazionalista Francia (solo quando va bene, perché le sue ragioni contro la Germania non le fa valere) i sindaci erano designati dallo stato.
UncleTom
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Re: La crisi dell'Europa

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La tragedia greca dei salari: vivere con 260 euro al mese

Scritto il 31/8/17 • nella Categoria: segnalazioni
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L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.
La maggiore diminuzione degli stipendi, tra -42% e -25%, colpisce i lavoratori giovani e quelli nell’età più produttiva, cioè i trentenni e i quarantenni. I lavoratori trentenni di solito progettano di formare una famiglia, e quelli verso i 40 e oltre spesso hanno già delle famiglie e dei figli. Hanno quindi da gestire impegni economici maggiori con redditi che diminuiscono. Ci sono 548.000 lavoratori nella fascia di età 40-49 anni. I lavoratori registrati over 50 sono 335.000. Prima della crisi molti di loro guadagnavano più di 1.600 euro lordi al mese. Nel 2012 i salari minimi sono diminuiti da 780 a 580 euro lordi per i lavoratori sopra i 25 anni e sono diminuiti a 510 euro lordi per i lavoratori tra i 15 e i 24 anni. Secondo lo stesso Dataset, le pensioni medie sono diminuite del 13,96% tra il 2012 e il 2016. Nel periodo 2010-2017 le pensioni di base e integrative sono state tagliate 14 volte.
Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è sceso a causa dei lavori stagionali nel settore turistico. Nell’aprile 2017 il tasso di disoccupazione in Grecia era il 21,7% ed è tuttora il più alto dell’Unione Europea. Seconda viene la Spagna, con una disoccupazione al 17,1%. Tuttavia, secondo l’Unione dei Lavoratori nel Turismo e nella Ristorazione, gli imprenditori pongono l’enfasi sull’ingaggio di lavoratori giovani, fino a 25 anni di età, grazie ai loro minori salari. I salari in questo settore per questo gruppo di età sono di 510 euro al mese lordi per un lavoro a tempo pieno, che diventano 410 euro netti dopo aver scalato tasse e contributi previdenziali. Questa tendenza, che i media greci descrivono come “la cattiva cultura degli imprenditori”, impedisce la firma di contratti collettivi che permetterebbero di ingaggiare lavoratori più anziani, con più anni di esperienza e conseguentemente salari più alti.

(“La tragedia greca dei salari: la generazione dei 265 euro al mese”, report di “Keep Talking Greece”, 1° agosto 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).
UncleTom
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Re: La crisi dell'Europa

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Sono pazzi, dicono ancora che l’Ue si possa democratizzare
Scritto il 01/9/17 • nella Categoria: idee Condividi


Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile.

E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai.

Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica».

Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto».

C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici».

Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico».

Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane».

Con Bruxelles la partita è persa, resta solo la fuga.

Si insiste sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin dalle origini dalla Germania postbellica, nega la capacità del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte, dunque – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi intermedi come i sindacati).

La politica non deve dunque compensare gli effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia sociale di mercato” – si presenta come un vera e propria utopia, una economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore comunitario e ordine sociale armonico.

Questa funzione di governance, continua Formenti, non necessita di legittimazione, per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee, o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica cadono letteralmente nel vuoto: «l’Unione non è uno stato federale “incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di gestire una governance multilivello».

Una superstruttura «rispetto alla quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una costituzione senza Stato e senza popolo”».

Di fronte a questa realtà, «l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma (fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi subalterne», osserva Formenti.

Altro argomento, la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri paesi, mediterranei e dell’Est, «imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto reciproco sul mercato globale».

Il processo di globalizzazione è stato a lungo trainato «dalla sostanziale convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri paesi grazie all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di crescita del proprio surplus commerciale».

La crisi, argomenta Screpanti, ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i paesi ad adottare forme di “mercantilismo difensivo” che tendono a rallentare lo sviluppo, nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni.

Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di “fine della globalizzazione”, in quanto il processo di internazionalizzazione delle grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il nazionalismo dei grandi Stati.

In questo contesto la Germania, «il cui modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basato sulle esportazioni», tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri paesi dell’Unione, imponendo – come afferma Vasapollo – una divisione del lavoro «che assegna ai paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre trasferisce all’Est il sistema industriale per ridurre ulteriormente il costo del lavoro».

Del resto, «il mito della convergenza delle economie nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali opposto un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in deficit e subisce un processo di deindustrializzazione».

Ormai, continua Formenti, è evidente che l’euro «è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni di potenza emergente a livello globale».

Di fronte a questo scenario, «che rende irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa», tutti gli articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne, di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro paese – uscita che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un prezzo elevato da pagare.

Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista, sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto alle rivoluzioni bolivariane in America Latina.

Di taglio più politico l’articolo di Cremaschi, che affronta la crisi della globalizzazione dal punto di vista della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni.

«A causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una “guerra di classe dall’alto” che già aveva falcidiato occupazione, salari e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in quei paesi – Stati Uniti e Inghilterra, dove quasi mezzo secolo fa è iniziata la controrivoluzione liberista».

Che poi questa rivolta abbia assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso Sanders), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle caste corrotte e dirottano la rabbia popolare sui migranti, non toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale.

Le sinistre radicali?

Continuano ad allearsi «alle socialdemocrazie in via di estinzione», quando non sono «pienamente convertite al liberismo», e quindi «si autocondannano alla ininfluenza più assoluta».

Meglio invece «misurarsi con “l’onda populista”», perché il vero problema ormai «non è se, ma come, usciremo dalla globalizzazione».
UncleTom
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Re: La crisi dell'Europa

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Catalogna, blitz spagnolo sul governo indipendentista: 14 arresti. Barcellona in piazza. Puigdemont: “Libertà sospesa”
di F. Q. | 20 settembre 2017

Mondo
Migliaia protestano in strada a Barcellona al grido di "Vogliamo essere liberi". L'8 settembre l'esecutivo catalano è stato denunciato in blocco da Madrid per "disobbedienza, abuso di potere e malversazione di denaro pubblico" per aver firmato il decreto di convocazione del referendum sull'indipendenza. La Corte costituzionale ha sospeso la consultazione
di F. Q. | 20 settembre 2017
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Più informazioni su: Barcellona, Catalogna, Indipendenza, Madrid, Referendum

Lo scontro tra Madrid e Barcellona sale di livello a dieci giorni dalla data prevista per il referendum sull’indipendenza della Catalogna, sospeso dalla Corte costituzionale spagnola. Mercoledì mattina la Guardia Civil spagnola ha arrestato nelle sedi del governo catalano 14 persone legate all’organizzazione del voto: tra loro anche Josep Maria Jové, segretario dell’Economia e braccio destro del vicepresidente catalano Oriol Junqueras, e molti funzionari ministeriali.
Nel corso dell’operazione – 22 le perquisizioni effettuate – il corpo di gendarmeria ha setacciato, alla ricerca di “prove”, l’Agenzia tributaria della Catalogna e i dipartimenti dell’economia, degli esteri, del lavoro e degli affari sociali del governo catalano, che l’8 settembre è stato denunciato in blocco per “disobbedienza, abuso di potere e malversazione di denaro pubblico proprio per aver firmato il decreto di convocazione del referendum.
01:30
L’operazione puntava a smantellare completamente la rete logistica e organizzativa del referendum. La Guardia Civil ha sequestrato oggi 10 milioni di schede per il voto nella consultazione del 1° ottobre e altro materiale elettorale durante una perquisizione in un magazzino a Bigues i Riells, vicino a Barcellona. Unità antisommossa della polizia hanno preso posizione davanti alla sede del partito indipendentista di sinistra Cup, riferisce El Periodico online, in attesa di un ordine giudiziario per entrare. Su Twitter il partito antisistema ha reso noto di avere tolto dalla sede e “distribuito in tutto il paese” tutto il materiale elettorale per il referendum del primo ottobre, dichiarato “illegale” da Madrid.
Il sindaco di Barcellona Ada Colau, eletta con Podemos, ha definito il blitz “uno scandalo democratico” e il suo partito En Comu Podem ha invitato a manifestare contro “l’attacco” del governo alle istituzioni catalane. Circa 2mila persone sono scese in piazza a Barcellona, dove si sono verificati momenti di tensione e brevi tafferugli fra manifestanti indipendentisti e Guardia Civil davanti ad una sede del governo catalano, mentre gli agenti scortavano uno dei dirigenti dell’amministrazione arrestati nel blitz. Non risulta ci siano stati feriti o persone arrestate. I manifestanti hanno cercato di bloccare il passaggio del convoglio.
“Il governo ha oltrepassato la linea rossa che lo separava dai regimi totalitari ed è diventato una vergogna democratica”, ha detto in una conferenza stampa il presidente catalano Carles Puigdemont, che ha parlato di “atteggiamento totalitario” e ha accusato l’esecutivo di Madrid di avere “sospeso di fatto, illegittimamente, l’autogoverno della Catalogna, instaurando uno stato di eccezione: la libertà è sospesa“. “E’ una situazione inaccettabile in democrazia – ha proseguito il capo della Generalitat – una operazione coordinata per impedire che i catalani possano esprimersi in pace e libertà il 1 ottobre”. Puigdemont ha ribadito che il referendum si farà. Il 1° ottobre “usciremo da casa con una scheda e la useremo” nonostante le “illegalità”, le “minacce del governo spagnolo” e “l’atteggiamento antidemocratico di un governo che ha mostrato il suo volto intollerante”, ha detto ancora il governatore. E in vista della consultazione, il ministero degli interni di Madrid ha annullato permessi e ferie degli agenti della polizia nazionale e della Guardia Civil assegnati alla crisi in Catalogna: la misura è prevista per il periodo dal 20 settembre al 5 ottobre, ma può essere prorogata.
Xavier Domènech, portavoce di En Comu Podem al Parlamento, ha annunciato la convocazione di “una mobilitazione perché siamo in un momento grave di attacco alle libertà. Alcuni di noi stanno andando in Catalogna, altri rimarranno a Madrid per coordinare le cose”. Sono già migliaia, intanto, le persone scese in strada per protesta nel centro di Barcellona bloccando il traffico in alcune strade: cantano l’inno catalano Els Segadors e gridano ‘Libertà’, ‘Indipendenza’, ‘Vogliamo essere liberi’, ‘Vergogna!’. Un gruppo di manifestanti ha anche circondato un’auto della Guardia Civil urlando “fuori le forze di occupazione”.
00:15
Il leader di Podemos Pablo Iglesias ha denunciato che ora in Spagna “tornano ad esserci detenuti politici“. “E’ una vergogna”, ha aggiunto, “mentre un partito corrotto controlla le istituzioni”. Dal canto suo il premier spagnolo Mariano Rajoy ha ribadito davanti al Congresso dei deputati che davanti alla sfida indipendentista di Barcellona, definita “una follia che non porta da nessuna parte”, “logicamente lo stato deve reagire“. “Non c’è nessuno stato democratico nel mondo che accetti quello che stanno facendo queste persone – ha detto – erano state avvisate, sapevano che il referendum non poteva essere celebrato perché si tratta di liquidare la sovranità nazionale e il diritto che hanno tutti gli spagnoli di decidere cosa vogliono per il loro paese”. Il premier ha visto oggi a Palazzo della Moncloa i leader dei due grandi partiti di opposizione, il socialista Pedro Sanchez e Albert Rivera di Ciudadanos (Cs), che appoggiano il governo nella sua strategia contro il referendum. Podemos è il solo grande partito spagnolo favorevole al ‘diritto di deciderè dei catalani.
Martedì sera la Guardia Civil era entrata – dopo tre ore di teso faccia a faccia con un centinaio di manifestanti indipendentisti – nella sede della società di posta privata Unipost a Terrassa, per sequestrare alcune buste intestate del governo catalano collegate con l’organizzazione del referendum. Secondo la tv pubblica Tve sono state portate via l’80% delle notifiche di convocazione per i seggi elettorali del referendum del primo ottobre. La folla ha cantato l’inno catalano Els Segadors e slogan come “Voteremo” e “Voteremo e lasceremo la Spagna”. Le società operatrici delle telecomunicazioni hanno poi ricevuto ordini giudiziari per la chiusura di 22 domini web che informano sul referendum. Un primo sito, referendum.cat, era stato chiuso per decisione di un giudice la settimana corsa, ma il presidente catalano Carles Puigdemont aveva annunciato pochi minuti dopo che continuava a essere disponibile su altri indirizzi internet aperti all’estero.
Anche il principale club calcistico della città si schiera contro la decisione di Madrid: “”Di fronte agli eventi degli ultimi giorni, e in particolare oggi, in relazione alla situazione politica in Catalogna – si legge in una nota – il Barcellona, fedele al suo impegno storico per la difesa del Paese, della democrazia, della libertà di espressione e dell’autodeterminazione, condanna qualsiasi azione che possa impedire l’esercizio pieno di questi diritti”, si legge nella nota. “A tal proposito, il Barcellona manifesta pubblicamente il suo sostegno a tutte le persone, entità e istituzioni che lavorano per garantire questi diritti. Nel massimo rispetto del suo vasto assetto, il Barcellona continuerà a sostenere la volontà della maggioranza del popolo della Catalogna, sempre espressa in modo civico, pacifico ed esemplare”.
di F. Q. | 20 settembre 2017

VEDI VIDEO:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09 ... e/3867027/
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