Cittadino Presidente
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Re: Cittadino Presidente
Cadaveri (poco) eccellenti
Tutto il vecchio apparato della prima Repubblica che si è riciclato nella seconda repubblica e che sa cosa successe ai tempi, fa quadrato attorno a Napolitano affinché i segreti ventennali delle stragi del '92-'93 e della Trattativa Stato-Mafia rimangano tali.
Altrimenti il discredito verso l'intera classe politica diverrebbe totale.
Gli italiani non devono sapere.
IL CASO
Stato-mafia, Casini attacca le toghe
"Schegge che vogliono intimidire"
Il presidente del Senato Schifani, il giorno dopo l'intervento del presidente della Repubblica: "Attaccare lui è attaccare lo Stato italiano". Il leader dell'Udc ipotizza che dietro il "perverso circuito giudiziario-informatico" ci sia il coinvolgimento di "parti della magistratura". Bersani: "Evitare manovre intorno al Quirinale"
ROMA - "Attaccare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, significa attaccare lo Stato italiano. In questi anni ho avuto l'onore di collaborare e confrontarmi con il presidente della Repubblica: sia nei nostri incontri istituzionali che in quelli riservati ho trovato in lui un grandissimo senso dello Stato, una grandissima trasparenza, correttezza e saggezza. Questi valori sono un patrimonio del Paese: attaccare il presidente Napolitano significa danneggiare il nostro Paese". Lo ha dichiarato il presidente del Senato, Renato Schifani, dopo che ieri il capo dello Stato aveva definito la polemica esplosa dopo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche tra Mancino e D'Ambrosio una "campagna di sospetti sul nulla 1".
Ipotizza, invece, il coinvolgimento di qualcuno che "si sente minacciato nei privilegi di casta o pensa di avere il monopolio di alcuni poteri dello Stato" il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini che ha dichiarato: "il vergognoso attacco al Presidente Napolitano è grave". E attacca: "Poiché a pensar male si fa peccato, ma ogni tanto ci si prende, non vorrei che questo fosse determinato non dalla politica o da partiti politici, ma da qualcuno che si sente minacciato nei privilegi di casta. Tanto per esser chiari non penso siano i partiti politici, ma schegge della magistratura che forse hanno certi obiettivi intimidatori". Il leader dell'Udc insiste, poi, sul fatto di voler sapere chi, "divulgando le intercettazioni sul Quirinale in un perverso circuito giudiziario-informatico, ha determinato un attacco al Colle chiaramente pretestuoso e infondato". Ma, conclude Casini, "se c'è un uomo che non si fa intimidire è il capo dello stato. Napolitano ha i nervi saldi. Ma bisogna capire meglio chi ha fatto uscire le intercettazioni e chi le ha usate in un circuito perverso con i media per attaccare il presidente della repubblica. Vorrei che si aprisse una bella indagine".
Sono ''indecorose e indegne le intercettazioni che sfiorano il Quirinale'', riportate dagli organi di stampa in relazione alla presunta trattativa Stato-mafia. ''Tutto ciò riguarda una modalità barbara a cui abbiamo provato a porre rimedio'', ha detto il segretario del Pdl, Angelino Alfano. A lui fa eco Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, che parla di "indecente e pericolosa operazione di intossicazione e anche di depistaggio. Gli attacchi del tutto immotivati al presidente Napolitano sono funzionali a due operazioni che non intendiamo affatto coprire", ha dichiarato.
Invita a evitare manovre intorno al Quirinale, che "è uno dei pochi presidi di questa democrazia" il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani: "Sarà meglio evitare manovre attorno a lui perché poi non ci ritroviamo piu' niente''.
(22 giugno 2012)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.repubblica.it/politica/2012/ ... ef=HREC1-8
Tutto il vecchio apparato della prima Repubblica che si è riciclato nella seconda repubblica e che sa cosa successe ai tempi, fa quadrato attorno a Napolitano affinché i segreti ventennali delle stragi del '92-'93 e della Trattativa Stato-Mafia rimangano tali.
Altrimenti il discredito verso l'intera classe politica diverrebbe totale.
Gli italiani non devono sapere.
IL CASO
Stato-mafia, Casini attacca le toghe
"Schegge che vogliono intimidire"
Il presidente del Senato Schifani, il giorno dopo l'intervento del presidente della Repubblica: "Attaccare lui è attaccare lo Stato italiano". Il leader dell'Udc ipotizza che dietro il "perverso circuito giudiziario-informatico" ci sia il coinvolgimento di "parti della magistratura". Bersani: "Evitare manovre intorno al Quirinale"
ROMA - "Attaccare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, significa attaccare lo Stato italiano. In questi anni ho avuto l'onore di collaborare e confrontarmi con il presidente della Repubblica: sia nei nostri incontri istituzionali che in quelli riservati ho trovato in lui un grandissimo senso dello Stato, una grandissima trasparenza, correttezza e saggezza. Questi valori sono un patrimonio del Paese: attaccare il presidente Napolitano significa danneggiare il nostro Paese". Lo ha dichiarato il presidente del Senato, Renato Schifani, dopo che ieri il capo dello Stato aveva definito la polemica esplosa dopo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche tra Mancino e D'Ambrosio una "campagna di sospetti sul nulla 1".
Ipotizza, invece, il coinvolgimento di qualcuno che "si sente minacciato nei privilegi di casta o pensa di avere il monopolio di alcuni poteri dello Stato" il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini che ha dichiarato: "il vergognoso attacco al Presidente Napolitano è grave". E attacca: "Poiché a pensar male si fa peccato, ma ogni tanto ci si prende, non vorrei che questo fosse determinato non dalla politica o da partiti politici, ma da qualcuno che si sente minacciato nei privilegi di casta. Tanto per esser chiari non penso siano i partiti politici, ma schegge della magistratura che forse hanno certi obiettivi intimidatori". Il leader dell'Udc insiste, poi, sul fatto di voler sapere chi, "divulgando le intercettazioni sul Quirinale in un perverso circuito giudiziario-informatico, ha determinato un attacco al Colle chiaramente pretestuoso e infondato". Ma, conclude Casini, "se c'è un uomo che non si fa intimidire è il capo dello stato. Napolitano ha i nervi saldi. Ma bisogna capire meglio chi ha fatto uscire le intercettazioni e chi le ha usate in un circuito perverso con i media per attaccare il presidente della repubblica. Vorrei che si aprisse una bella indagine".
Sono ''indecorose e indegne le intercettazioni che sfiorano il Quirinale'', riportate dagli organi di stampa in relazione alla presunta trattativa Stato-mafia. ''Tutto ciò riguarda una modalità barbara a cui abbiamo provato a porre rimedio'', ha detto il segretario del Pdl, Angelino Alfano. A lui fa eco Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, che parla di "indecente e pericolosa operazione di intossicazione e anche di depistaggio. Gli attacchi del tutto immotivati al presidente Napolitano sono funzionali a due operazioni che non intendiamo affatto coprire", ha dichiarato.
Invita a evitare manovre intorno al Quirinale, che "è uno dei pochi presidi di questa democrazia" il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani: "Sarà meglio evitare manovre attorno a lui perché poi non ci ritroviamo piu' niente''.
(22 giugno 2012)
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http://www.repubblica.it/politica/2012/ ... ef=HREC1-8
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Re: Cittadino Presidente
La “trattativa”, giusto indagare di Antonio Ingroia
21 giugno 2012
In questi giorni ho letto con interesse e col massimo distacco possibile tutti i commenti dedicati ai vari risvolti legati all’indagine della Procura di Palermo sulla cosiddetta «trattativa» Stato-mafia dei primi anni ’90. E ho il massimo rispetto di tutte le critiche, anche delle più aspre e radicali. Uno dei commenti che più mi ha impressionato è stato certamente quello di Giovanni Pellegrino, pubblicato ieri su l’Unità. Perché Pellegrino è un esperto uomo di legge, che ben conosce il sistema e il diritto penale italiano.
E perché è stato un investigatore di tanti misteri della nostra Repubblica, nelle sue funzioni di presidente di un’importante commissione parlamentare d’inchiesta sullo stragismo in Italia. Ebbene, se una figura del genere giunge a certe conclusioni e ha determinate perplessità, vuol dire che sulla vicenda permangono tali equivoci comunicativi da far correre il rischio che la pubblica opinione, anche quella più avvertita, non possa farsi un'idea, e quindi formarsi un giudizio che siano fondati su una corretta informazione.
Come deve essere rispetto ad una vicenda, non solo giudiziaria, di tale impatto e interesse pubblico. Sicché, ritengo necessario, nei limiti consentiti dal doveroso riserbo investigativo su un procedimento in corso, alcuni chiarimenti. Dice Pellegrino, come già un illustre giurista e mio maestro di diritto penale come Giovanni Fiandaca, che trattare con la mafia non è di per sé un illecito. Sono d’accordo.
Del resto, sia chiaro che nessun reato di «trattativa» è stato ad oggi contestato nell’indagine di cui si discute. Così come la vittima dell’estorsione non è penalmente punibile per il solo fatto di «trattare» col mafioso il pizzo da pagare sotto la minaccia dell'estorsione. Altra questione è se sia punibile chi aiuta la mafia a portare la minaccia a destinazione, così agevolando la trattativa.
L’intermediario dell’estorsione privata viene, ad esempio, sempre sanzionato per il sostegno dato all’estortore. Ma, in ogni caso, ben altra questione è se sia moralmente ed eticamente giusto «trattare» con la mafia senza denunciarlo all’autorità giudiziaria. Il commerciante, se non lo ammette quando interrogato, risponde di falsa testimonianza o, a volte, di favoreggiamento.
Lo stesso dovrebbe valere se la minaccia investe lo Stato e se il rappresentante dello Stato dovesse decidere di trattare. E in ogni caso, recenti coraggiose posizioni di Confindustria sono arrivate a sanzionare con l’espulsione il loro iscritto, imprenditore, che paghi il pizzo senza denunciarlo alla magistratura.
Se si scoprisse che analogo comportamento è stato realizzato da un governante per effetto delle minacce della mafia, fermo restando che tale comportamento può essere penalmente irrilevante, non sarebbe forse un comportamento meritevole di verifica in altra sede, soprattutto politica, proprio come sta facendo la commissione parlamentare Antimafia? Non sarebbe doveroso chiedersi se vi fu davvero un «arretramento tattico» intenzionale per meglio colpire i corleonesi, come si ipotizza nell’articolo di Pellegrino?
Non hanno diritto i cittadini a saperlo, specie se, come è scritto in alcune sentenze passate in giudicato, tale scriteriata trattativa ha avuto, invece, il controproducente effetto di accelerare le stragi, come quelle del ’93? E non hanno diritto a saperlo i familiari delle vittime di quelle stragi? A questo mi riferisco quando ribadisco l’esigenza che si accerti tutta la verità su quel terribile biennio stragista. La magistratura deve solo perseguire responsabilità penali personali e cercare le prove, e celebrare processi se le prove ci sono.
Ed ovviamente tenendo conto che i processi si fanno solo con una ragionevole probabilità di successo di ottenere condanne definitive. Ovvio, direi. La legge impone di andare a processo solo con elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Ma, se è così, la possibile verità giudiziaria va ricercata ad ogni costo, perché solo con la verità si può crescere. Ma non soltanto con la verità giudiziaria. Tocca dunque anche ad altri fare la propria parte.
Perché la magistratura non può e non deve supplire alle inerzie e alle lacune degli altri, della politica in primo luogo. Perché venga fuori tutta la verità. Quella giudiziaria nelle aule giudiziarie. Quella storico-politica in altre sedi. Perché, se del caso, corrispondano a prove di reato responsabilità penali. E conseguano ad altri accertamenti responsabilità politiche o di altro tipo. Per fare ciò la verità deve essere voluta da tutti, nelle varie sedi. E bisogna cercarla. Aiutarla a venire fuori.
http://www.unita.it/italia/la-trattativ ... i-1.422716
21 giugno 2012
In questi giorni ho letto con interesse e col massimo distacco possibile tutti i commenti dedicati ai vari risvolti legati all’indagine della Procura di Palermo sulla cosiddetta «trattativa» Stato-mafia dei primi anni ’90. E ho il massimo rispetto di tutte le critiche, anche delle più aspre e radicali. Uno dei commenti che più mi ha impressionato è stato certamente quello di Giovanni Pellegrino, pubblicato ieri su l’Unità. Perché Pellegrino è un esperto uomo di legge, che ben conosce il sistema e il diritto penale italiano.
E perché è stato un investigatore di tanti misteri della nostra Repubblica, nelle sue funzioni di presidente di un’importante commissione parlamentare d’inchiesta sullo stragismo in Italia. Ebbene, se una figura del genere giunge a certe conclusioni e ha determinate perplessità, vuol dire che sulla vicenda permangono tali equivoci comunicativi da far correre il rischio che la pubblica opinione, anche quella più avvertita, non possa farsi un'idea, e quindi formarsi un giudizio che siano fondati su una corretta informazione.
Come deve essere rispetto ad una vicenda, non solo giudiziaria, di tale impatto e interesse pubblico. Sicché, ritengo necessario, nei limiti consentiti dal doveroso riserbo investigativo su un procedimento in corso, alcuni chiarimenti. Dice Pellegrino, come già un illustre giurista e mio maestro di diritto penale come Giovanni Fiandaca, che trattare con la mafia non è di per sé un illecito. Sono d’accordo.
Del resto, sia chiaro che nessun reato di «trattativa» è stato ad oggi contestato nell’indagine di cui si discute. Così come la vittima dell’estorsione non è penalmente punibile per il solo fatto di «trattare» col mafioso il pizzo da pagare sotto la minaccia dell'estorsione. Altra questione è se sia punibile chi aiuta la mafia a portare la minaccia a destinazione, così agevolando la trattativa.
L’intermediario dell’estorsione privata viene, ad esempio, sempre sanzionato per il sostegno dato all’estortore. Ma, in ogni caso, ben altra questione è se sia moralmente ed eticamente giusto «trattare» con la mafia senza denunciarlo all’autorità giudiziaria. Il commerciante, se non lo ammette quando interrogato, risponde di falsa testimonianza o, a volte, di favoreggiamento.
Lo stesso dovrebbe valere se la minaccia investe lo Stato e se il rappresentante dello Stato dovesse decidere di trattare. E in ogni caso, recenti coraggiose posizioni di Confindustria sono arrivate a sanzionare con l’espulsione il loro iscritto, imprenditore, che paghi il pizzo senza denunciarlo alla magistratura.
Se si scoprisse che analogo comportamento è stato realizzato da un governante per effetto delle minacce della mafia, fermo restando che tale comportamento può essere penalmente irrilevante, non sarebbe forse un comportamento meritevole di verifica in altra sede, soprattutto politica, proprio come sta facendo la commissione parlamentare Antimafia? Non sarebbe doveroso chiedersi se vi fu davvero un «arretramento tattico» intenzionale per meglio colpire i corleonesi, come si ipotizza nell’articolo di Pellegrino?
Non hanno diritto i cittadini a saperlo, specie se, come è scritto in alcune sentenze passate in giudicato, tale scriteriata trattativa ha avuto, invece, il controproducente effetto di accelerare le stragi, come quelle del ’93? E non hanno diritto a saperlo i familiari delle vittime di quelle stragi? A questo mi riferisco quando ribadisco l’esigenza che si accerti tutta la verità su quel terribile biennio stragista. La magistratura deve solo perseguire responsabilità penali personali e cercare le prove, e celebrare processi se le prove ci sono.
Ed ovviamente tenendo conto che i processi si fanno solo con una ragionevole probabilità di successo di ottenere condanne definitive. Ovvio, direi. La legge impone di andare a processo solo con elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Ma, se è così, la possibile verità giudiziaria va ricercata ad ogni costo, perché solo con la verità si può crescere. Ma non soltanto con la verità giudiziaria. Tocca dunque anche ad altri fare la propria parte.
Perché la magistratura non può e non deve supplire alle inerzie e alle lacune degli altri, della politica in primo luogo. Perché venga fuori tutta la verità. Quella giudiziaria nelle aule giudiziarie. Quella storico-politica in altre sedi. Perché, se del caso, corrispondano a prove di reato responsabilità penali. E conseguano ad altri accertamenti responsabilità politiche o di altro tipo. Per fare ciò la verità deve essere voluta da tutti, nelle varie sedi. E bisogna cercarla. Aiutarla a venire fuori.
http://www.unita.it/italia/la-trattativ ... i-1.422716
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Re: Cittadino Presidente
La trattativa Stato-Mafia? Mossa per stroncare i corleonesi
di Giovanni Pellegrino
Non sarebbe irragionevole supporre che in sede politica ci si sia assunta la responsabilità di rallentare temporaneamente l’applicazione della norma per aver tempo di stroncare i corleonesi.
19 giugno 2012
La chiusura dell’ indagine palermitana sulla trattativa Stato-mafia ha suscitato, come era prevedibile, perplessità e polemiche, soprattutto una volta che anche Giovanni Conso è risultato indagato per false dichiarazioni ai pubblici ministeri.
Un autorevole esponente di Magistratura democratica (Rossi) non ha avuto remore nel manifestare tutto il suo sconcerto per l’accusa rivolta da suoi colleghi ad una personalità, che è stata sicuro punto di riferimento civile ed etico per almeno due generazioni di giuristi e di operatori pratici del diritto.
In una prospettiva più generale uno dei maggiori penalisti italiani (Giovanni Fiandaca) ha sottolineato l’impossibilità già in astratto di contestare a vertici politici di aver discrezionalmente deciso di alleggerire l’applicazione concreta di misure antimafia per evitare altre stragi da parte dei corleonesi.
Le polemiche sono salite di tono, poiché del materiale indagativo reso pubblico fanno parte intercettazioni di telefonate di Nicola Mancino agli uffici del Quirinale, che ebbero quale esito l’invio da parte del segretario generale della Presidenza di una lettera, che segnalava al Procuratore generale della Cassazione l’opportunità di un coordinamento delle indagini delle Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, che sembravano allora muoversi su medesime vicende in direzioni contrastanti.
Nel silenzio (per ora) di Grillo, Antonio Di Pietro non ha perduto tempo e ha annunciato un’interrogazione al ministro della Giustizia, perché in sede giudiziaria «la verità deve essere cercata senza guardare in faccia né presidenti, né ex presidenti e senza interventi di sorta». La posizione di Di Pietro ha trovato un pendent in una lunga intervista rilasciata dal coordinatore del pool, che indaga sulla trattativa Stato-mafia a Repubblica.
Antonio Ingroia non ha contestato la posizione di Fiandaca, assicurando che «nessun politico è accusato di aver trattato con la mafia», accusa rivolta soltanto ad intermediari anche istituzionali della trattativa.
Per parte mia osservo che Cesare accettò la trattativa con i pirati che lo avevano rapito, ma il pagamento del riscatto non gli impedì successivamente di catturarli e di tagliare loro la testa!
Sul piano di una ragionevole ricostruzione del difficile periodo non sarebbe quindi irragionevole supporre che, accertata la finalità cui tendevano i vertici mafiosi dell’epoca, in sede politica ci si sia assunta la responsabilità non di accogliere le loro inaccettabili richieste (abrogazione dell’art. 41 bis, revisione del maxiprocesso), ma soltanto di rallentare temporaneamente l’applicazione della norma per aver tempo di stroncare i corleonesi, come poi in effetti è avvenuto. Si sarebbe trattato in buona sostanza di un arretramento tattico, che non intaccava la strategia di fondo, ma era funzionale ad assicurarne il successo.
Mi domando però come sarebbe stato possibile assumere questa decisione discrezionale, di cui Ingroia non contesta la legittimità, se una intelligente attività indagativa non avesse fatto emergere quale era il fine, cui Riina e Provenzano tendevano.
Certo è comunque che ai vertici politici non viene contestata la trattativa, ma soltanto addebiti minori relativi all’atteggiamento da loro assunto nel corso dell’indagine: falsa testimonianza per Mancino, false dichiarazioni al pm per Conso.
Destinatari della più grave tra le accuse sembrano essere quindi Dell’Utri e Mori, e cioè persone già oggetto di indagini anteriori, dei cui esiti giudiziari i magistrati palermitani non sono forse soddisfatti. (Se fosse lecito un esercizio di ironia in una vicenda così delicata, verrebbe voglia di commentare: Dell’Utri/Mori 2: la vendetta!).
Comunque sia di ciò, dopo aver sottolineato che non ha riguardato le posizioni di Conso e Mancino il dissenso di uno dei componenti del pool (Guido), che non ha sottoscritto l’avviso di conclusioni delle indagini, Ingroia ha comunque concluso la sua intervista con l’auspicio che «sia accertata la verità sui misteri del ’92-’93».
Mi domando se non sia legittimo in qualche modo dubitare che l’accertamento del Vero sia fino in fondo compito proprio dell’Autorità giudiziaria, stante il principio di civiltà giuridica espresso dalla formula in dubio pro reo.
A questo aggiungo che, con riferimento a fatti lontani nel tempo (dalla difficile stagione del ’92 e ’93 ci separano ormai vent’anni e cioè il tempo di una generazione), la verità che secondo Ingroia e Di Pietro sarebbe compito della magistratura accertare, attiene al piano della storia, mentre tutti sappiamo che verità storica e verità giudiziaria non sempre coincidono (altrimenti dovremmo concludere che il Nazareno e Socrate erano colpevoli!), come hanno dolorosamente dimostrato gli esiti assolutori, cui sono pervenute le indagini pur molto accurate e professionali sulle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia.
È in ogni caso doveroso concludere che se l’accertamento della verità è compito proprio della magistratura, questo non può essere affidato che alla forza dei giudicati finali.
Il rilievo conduce al cuore del problema: quante probabilità effettive sussistono che l’indagine palermitana, a valle dei tre gradi di giudizio, si concluda con giudicati di condanna?
Ad emergere è quindi un problema antico, e cioè la sostanziale indifferenza, che nell’assumere determinate iniziative la magistratura inquirente ha rispetto agli esiti finali dell’indagine.
È questa una caratteristica tutta italiana, perché in altri sistemi accusatori il titolare della prosecution è tenuto per dovere istituzionale innanzitutto a domandarsi quali siano i costi finanziari dell’indagine e del successivo giudizio, quali siano i costi sociali dell’una e degli altri, e soprattutto quali siano le possibilità concrete che l’iniziativa dell’accusa approdi a giudicati finali di condanna.
Da noi avviene tutto il contrario, se è vero, come è vero, che ad una indagine, con forte impatto di destabilizzazione politica, il magistrato inquirente diede il nome di Why not?.
Se il nome è la cosa, commenti ulteriori risultano superflui. Anche gli eventi recenti confermano quindi come sia sempre più urgente una riforma complessiva del sistema d’accusa, che, nella riconosciuta impossibilità per la magistratura inquirente di dare un esito indagativo a tutte le notizie di reato, non consenta comunque agli inquirenti di farsi scudo del principio (ovviamente astratto) dell’obbligatorietà dell’azione penale come canone sostanzialmente deresponsabilizzante.
Ovviamente le responsabilità della mancata riforma ricadono per intero sul ceto politico, che da oltre un ventennio continua a misurarsi con un problema così delicato nell’ottica miope di una convenienza di breve periodo, alternando garantismo e giustizialismo in un grottesco balletto delle parti, per cui è sempre opportuna (fondata o infondata che appaia) l’iniziativa indagativa, che riguarda il proprio avversario.
Non a caso nella recente vicenda Maurizio Gasparri ha formulato l’auspicio che l’indagine giudiziaria sappia «mettere in luce le evidenti colpe di chi nel ’93 e ’94 cancellò il carcere duro per i mafiosi».
http://www.unita.it/italia/la-trattativ ... i-1.422079
di Giovanni Pellegrino
Non sarebbe irragionevole supporre che in sede politica ci si sia assunta la responsabilità di rallentare temporaneamente l’applicazione della norma per aver tempo di stroncare i corleonesi.
19 giugno 2012
La chiusura dell’ indagine palermitana sulla trattativa Stato-mafia ha suscitato, come era prevedibile, perplessità e polemiche, soprattutto una volta che anche Giovanni Conso è risultato indagato per false dichiarazioni ai pubblici ministeri.
Un autorevole esponente di Magistratura democratica (Rossi) non ha avuto remore nel manifestare tutto il suo sconcerto per l’accusa rivolta da suoi colleghi ad una personalità, che è stata sicuro punto di riferimento civile ed etico per almeno due generazioni di giuristi e di operatori pratici del diritto.
In una prospettiva più generale uno dei maggiori penalisti italiani (Giovanni Fiandaca) ha sottolineato l’impossibilità già in astratto di contestare a vertici politici di aver discrezionalmente deciso di alleggerire l’applicazione concreta di misure antimafia per evitare altre stragi da parte dei corleonesi.
Le polemiche sono salite di tono, poiché del materiale indagativo reso pubblico fanno parte intercettazioni di telefonate di Nicola Mancino agli uffici del Quirinale, che ebbero quale esito l’invio da parte del segretario generale della Presidenza di una lettera, che segnalava al Procuratore generale della Cassazione l’opportunità di un coordinamento delle indagini delle Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, che sembravano allora muoversi su medesime vicende in direzioni contrastanti.
Nel silenzio (per ora) di Grillo, Antonio Di Pietro non ha perduto tempo e ha annunciato un’interrogazione al ministro della Giustizia, perché in sede giudiziaria «la verità deve essere cercata senza guardare in faccia né presidenti, né ex presidenti e senza interventi di sorta». La posizione di Di Pietro ha trovato un pendent in una lunga intervista rilasciata dal coordinatore del pool, che indaga sulla trattativa Stato-mafia a Repubblica.
Antonio Ingroia non ha contestato la posizione di Fiandaca, assicurando che «nessun politico è accusato di aver trattato con la mafia», accusa rivolta soltanto ad intermediari anche istituzionali della trattativa.
Per parte mia osservo che Cesare accettò la trattativa con i pirati che lo avevano rapito, ma il pagamento del riscatto non gli impedì successivamente di catturarli e di tagliare loro la testa!
Sul piano di una ragionevole ricostruzione del difficile periodo non sarebbe quindi irragionevole supporre che, accertata la finalità cui tendevano i vertici mafiosi dell’epoca, in sede politica ci si sia assunta la responsabilità non di accogliere le loro inaccettabili richieste (abrogazione dell’art. 41 bis, revisione del maxiprocesso), ma soltanto di rallentare temporaneamente l’applicazione della norma per aver tempo di stroncare i corleonesi, come poi in effetti è avvenuto. Si sarebbe trattato in buona sostanza di un arretramento tattico, che non intaccava la strategia di fondo, ma era funzionale ad assicurarne il successo.
Mi domando però come sarebbe stato possibile assumere questa decisione discrezionale, di cui Ingroia non contesta la legittimità, se una intelligente attività indagativa non avesse fatto emergere quale era il fine, cui Riina e Provenzano tendevano.
Certo è comunque che ai vertici politici non viene contestata la trattativa, ma soltanto addebiti minori relativi all’atteggiamento da loro assunto nel corso dell’indagine: falsa testimonianza per Mancino, false dichiarazioni al pm per Conso.
Destinatari della più grave tra le accuse sembrano essere quindi Dell’Utri e Mori, e cioè persone già oggetto di indagini anteriori, dei cui esiti giudiziari i magistrati palermitani non sono forse soddisfatti. (Se fosse lecito un esercizio di ironia in una vicenda così delicata, verrebbe voglia di commentare: Dell’Utri/Mori 2: la vendetta!).
Comunque sia di ciò, dopo aver sottolineato che non ha riguardato le posizioni di Conso e Mancino il dissenso di uno dei componenti del pool (Guido), che non ha sottoscritto l’avviso di conclusioni delle indagini, Ingroia ha comunque concluso la sua intervista con l’auspicio che «sia accertata la verità sui misteri del ’92-’93».
Mi domando se non sia legittimo in qualche modo dubitare che l’accertamento del Vero sia fino in fondo compito proprio dell’Autorità giudiziaria, stante il principio di civiltà giuridica espresso dalla formula in dubio pro reo.
A questo aggiungo che, con riferimento a fatti lontani nel tempo (dalla difficile stagione del ’92 e ’93 ci separano ormai vent’anni e cioè il tempo di una generazione), la verità che secondo Ingroia e Di Pietro sarebbe compito della magistratura accertare, attiene al piano della storia, mentre tutti sappiamo che verità storica e verità giudiziaria non sempre coincidono (altrimenti dovremmo concludere che il Nazareno e Socrate erano colpevoli!), come hanno dolorosamente dimostrato gli esiti assolutori, cui sono pervenute le indagini pur molto accurate e professionali sulle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia.
È in ogni caso doveroso concludere che se l’accertamento della verità è compito proprio della magistratura, questo non può essere affidato che alla forza dei giudicati finali.
Il rilievo conduce al cuore del problema: quante probabilità effettive sussistono che l’indagine palermitana, a valle dei tre gradi di giudizio, si concluda con giudicati di condanna?
Ad emergere è quindi un problema antico, e cioè la sostanziale indifferenza, che nell’assumere determinate iniziative la magistratura inquirente ha rispetto agli esiti finali dell’indagine.
È questa una caratteristica tutta italiana, perché in altri sistemi accusatori il titolare della prosecution è tenuto per dovere istituzionale innanzitutto a domandarsi quali siano i costi finanziari dell’indagine e del successivo giudizio, quali siano i costi sociali dell’una e degli altri, e soprattutto quali siano le possibilità concrete che l’iniziativa dell’accusa approdi a giudicati finali di condanna.
Da noi avviene tutto il contrario, se è vero, come è vero, che ad una indagine, con forte impatto di destabilizzazione politica, il magistrato inquirente diede il nome di Why not?.
Se il nome è la cosa, commenti ulteriori risultano superflui. Anche gli eventi recenti confermano quindi come sia sempre più urgente una riforma complessiva del sistema d’accusa, che, nella riconosciuta impossibilità per la magistratura inquirente di dare un esito indagativo a tutte le notizie di reato, non consenta comunque agli inquirenti di farsi scudo del principio (ovviamente astratto) dell’obbligatorietà dell’azione penale come canone sostanzialmente deresponsabilizzante.
Ovviamente le responsabilità della mancata riforma ricadono per intero sul ceto politico, che da oltre un ventennio continua a misurarsi con un problema così delicato nell’ottica miope di una convenienza di breve periodo, alternando garantismo e giustizialismo in un grottesco balletto delle parti, per cui è sempre opportuna (fondata o infondata che appaia) l’iniziativa indagativa, che riguarda il proprio avversario.
Non a caso nella recente vicenda Maurizio Gasparri ha formulato l’auspicio che l’indagine giudiziaria sappia «mettere in luce le evidenti colpe di chi nel ’93 e ’94 cancellò il carcere duro per i mafiosi».
http://www.unita.it/italia/la-trattativ ... i-1.422079
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Re: Cittadino Presidente
22 GIUGNO 2012
Stato-mafia, si faccia chiarezza sulla trattativa
Il Paese ha diritto di sapere cosa è successo vent'anni fa tra lo Stato e la mafia.
http://video.repubblica.it/rubriche/rep ... f=HREC1-10
Stato-mafia, si faccia chiarezza sulla trattativa
Il Paese ha diritto di sapere cosa è successo vent'anni fa tra lo Stato e la mafia.
http://video.repubblica.it/rubriche/rep ... f=HREC1-10
Re: Cittadino Presidente
La trattativa Stato-mafia
Chi sa parli e niente bavaglio
23 giugno 2012
Sandra Bonsanti
Tutta la mia grande intelligenza, a cosa mi è servita?” mi chiese nella sua cella di Rebibbia Calogero Mannino il 26 agosto del 1995. Ero andata a trovarlo perché stava molto male e chiedeva di tornare in libertà. Mannino era stato uno degli interlocutori privilegiati di noi cronisti della Prima Repubblica. Conosceva tutto della Dc e parlava chiaro. Ma da qualche anno era come fuori di sé: appena fermava uno di noi, la storia era sempre la stessa: “Non vi rendete conto della grande congiura che è stata ordita contro di noi democristiani per far largo ad altri…”.
A lui sembrava tutto semplice, chiaro. Ma nomi non ne faceva, anche se a un certo punto cominciò ad alludere chiaramente ai nuovi di Forza Italia.
Quel giorno a Rebibbia (poche celle più in là c’era Vito Ciancimino, ironia della sorte o vicinanza voluta da chissà chi e per quale ragione?), Mannino parlò soprattutto del tentativo di rinnovamento della Dc siciliana portato avanti da lui e da Sergio Mattarella su indicazione di Ciriaco De Mita. Tornò solo di sfuggita sul clima di paura che aveva investito la Dc siciliana all’indomani della conferma in Cassazione delle condanne del Maxi processo. Ma non entrammo nei particolari, quelle stranezze che erano riassunte nella carte processuali nei confronti dell’ex ministro, oramai assolto da tutte le accuse. Scrissi su Repubblica: “Raccontano, le carte giudiziarie, della terribile profezia confidata al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli tra la fine del 1991 e l’inizio del ’92: “O uccidono me o uccidono Lima”. Morirono uccisi poco dopo sia Lima che Guazzelli. E Mannino intavolò subito dopo una serie di incontri con Bruno Contrada che andava al Ministero del Mezzogiorno e scriveva nella sua agenda: “un colloquio su sua vicenda”. Oppure: “Colloquio su cose di Sicilia”. Mannino era minacciato e cercava evidentemente aiuto. I magistrati sono convinti che Mannino aveva intuito che i corleonesi erano decisi a vendicarsi dei vecchi referenti e a trovarne di nuovi. Mi chiede ancora: “La mia intelligenza, a cosa mi è servita?”.
Era smunto, ingrigito, sofferente. Più in là, tranquillo e insinuante, l’ex padrone della Sicilia Vito Ciancimino.
Quegli incontri a Rebibbia mi tornano alla mente oggi che molti parlano di trattativa come se non se ne fosse mai sentito parlare. Come di una novità piombata dalla Sicilia per aggravare la situazione già tanto difficile del nostro povero Paese.
Invece tutto è così antico, così già scritto in quel drammatico scontro finale che vide la morte di chi non trattava ed era un ostacolo (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e chi invece pensava di risolvere lo scontro cedendo sul carcere duro, sull’arresto morbido di Riina, (niente perquisizione nella sua casa) e sull’arresto sempre rinviato di Provenzano.
La Dc si muoveva come impazzita, terrorizzata soprattutto dopo l’uccisione di Salvo Lima. Quanto sarebbe durata la mattanza già prevista da Mannino?
Anni di stragi e di morti innocenti. Ho come davanti agli occhi l’immagine di Paolo Borsellino, quel giorno di luglio che interruppe l’interrogatorio di Mutolo per andare dal nuovo ministro, Nicola Mancino, al Viminale e sull’uscio incrociò Contrada, l’uomo dello Stato e della trattativa, E seppe d’essere condannato.
Il Presidente Napolitano ha detto che bisogna fare luce sulla strategia delle stragi. Ha ragione e noi giornalisti che quei morti li abbiamo visti e li abbiamo contati nei nostri articoli gli siamo grati per averlo detto dall’Istituzione più alta.
Quello che grida vendetta, ancora oggi, sono i silenzi di chi ne sa molto di più di noi tutti, quei pochi che sanno e che tacciono ancora per paura o per nuovi interessi personali e politici.
Quello che grida vendetta sono le proteste vuote e supponenti di vecchi uomini dei partiti di allora che si sentono ancora giudicati e che attaccano la magistratura che vuole la verità sui colleghi ammazzati e che minacciano di imbavagliare la stampa.
Quello che non si sopporta sono le chiacchiere all’ombra del Presidente, magari facendosene scudo, discorsi da ex commilitoni, irriguardosi, irresponsabili e certamente non volti alla ricerca della verità ma della convenienza politica.
E’ difficile, per tutti, rimanere saldi nei principi. Ma non è impossibile. Chi deve pagare un prezzo lo paghi: non sarà mai alto come quello di chi ha perso la vita.
Chi deve parlare, parli. E, almeno, non disturbi le indagini.
http://www.libertaegiustizia.it/2012/06 ... -bavaglio/
Chi sa parli e niente bavaglio
23 giugno 2012
Sandra Bonsanti
Tutta la mia grande intelligenza, a cosa mi è servita?” mi chiese nella sua cella di Rebibbia Calogero Mannino il 26 agosto del 1995. Ero andata a trovarlo perché stava molto male e chiedeva di tornare in libertà. Mannino era stato uno degli interlocutori privilegiati di noi cronisti della Prima Repubblica. Conosceva tutto della Dc e parlava chiaro. Ma da qualche anno era come fuori di sé: appena fermava uno di noi, la storia era sempre la stessa: “Non vi rendete conto della grande congiura che è stata ordita contro di noi democristiani per far largo ad altri…”.
A lui sembrava tutto semplice, chiaro. Ma nomi non ne faceva, anche se a un certo punto cominciò ad alludere chiaramente ai nuovi di Forza Italia.
Quel giorno a Rebibbia (poche celle più in là c’era Vito Ciancimino, ironia della sorte o vicinanza voluta da chissà chi e per quale ragione?), Mannino parlò soprattutto del tentativo di rinnovamento della Dc siciliana portato avanti da lui e da Sergio Mattarella su indicazione di Ciriaco De Mita. Tornò solo di sfuggita sul clima di paura che aveva investito la Dc siciliana all’indomani della conferma in Cassazione delle condanne del Maxi processo. Ma non entrammo nei particolari, quelle stranezze che erano riassunte nella carte processuali nei confronti dell’ex ministro, oramai assolto da tutte le accuse. Scrissi su Repubblica: “Raccontano, le carte giudiziarie, della terribile profezia confidata al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli tra la fine del 1991 e l’inizio del ’92: “O uccidono me o uccidono Lima”. Morirono uccisi poco dopo sia Lima che Guazzelli. E Mannino intavolò subito dopo una serie di incontri con Bruno Contrada che andava al Ministero del Mezzogiorno e scriveva nella sua agenda: “un colloquio su sua vicenda”. Oppure: “Colloquio su cose di Sicilia”. Mannino era minacciato e cercava evidentemente aiuto. I magistrati sono convinti che Mannino aveva intuito che i corleonesi erano decisi a vendicarsi dei vecchi referenti e a trovarne di nuovi. Mi chiede ancora: “La mia intelligenza, a cosa mi è servita?”.
Era smunto, ingrigito, sofferente. Più in là, tranquillo e insinuante, l’ex padrone della Sicilia Vito Ciancimino.
Quegli incontri a Rebibbia mi tornano alla mente oggi che molti parlano di trattativa come se non se ne fosse mai sentito parlare. Come di una novità piombata dalla Sicilia per aggravare la situazione già tanto difficile del nostro povero Paese.
Invece tutto è così antico, così già scritto in quel drammatico scontro finale che vide la morte di chi non trattava ed era un ostacolo (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e chi invece pensava di risolvere lo scontro cedendo sul carcere duro, sull’arresto morbido di Riina, (niente perquisizione nella sua casa) e sull’arresto sempre rinviato di Provenzano.
La Dc si muoveva come impazzita, terrorizzata soprattutto dopo l’uccisione di Salvo Lima. Quanto sarebbe durata la mattanza già prevista da Mannino?
Anni di stragi e di morti innocenti. Ho come davanti agli occhi l’immagine di Paolo Borsellino, quel giorno di luglio che interruppe l’interrogatorio di Mutolo per andare dal nuovo ministro, Nicola Mancino, al Viminale e sull’uscio incrociò Contrada, l’uomo dello Stato e della trattativa, E seppe d’essere condannato.
Il Presidente Napolitano ha detto che bisogna fare luce sulla strategia delle stragi. Ha ragione e noi giornalisti che quei morti li abbiamo visti e li abbiamo contati nei nostri articoli gli siamo grati per averlo detto dall’Istituzione più alta.
Quello che grida vendetta, ancora oggi, sono i silenzi di chi ne sa molto di più di noi tutti, quei pochi che sanno e che tacciono ancora per paura o per nuovi interessi personali e politici.
Quello che grida vendetta sono le proteste vuote e supponenti di vecchi uomini dei partiti di allora che si sentono ancora giudicati e che attaccano la magistratura che vuole la verità sui colleghi ammazzati e che minacciano di imbavagliare la stampa.
Quello che non si sopporta sono le chiacchiere all’ombra del Presidente, magari facendosene scudo, discorsi da ex commilitoni, irriguardosi, irresponsabili e certamente non volti alla ricerca della verità ma della convenienza politica.
E’ difficile, per tutti, rimanere saldi nei principi. Ma non è impossibile. Chi deve pagare un prezzo lo paghi: non sarà mai alto come quello di chi ha perso la vita.
Chi deve parlare, parli. E, almeno, non disturbi le indagini.
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Re: Cittadino Presidente
Giornalisti o corazzieri?
di Antonio Padellaro | 26 giugno 2012
Più che ai tanti messaggi di apprezzamento per gli articoli del Fatto sugli interventi debiti e indebiti del Quirinale nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, risponderò alle critiche di altri nostri lettori. Essi, in sostanza, esprimono il timore che per una “tempesta in un bicchier d’acqua” (Giglioli), per “vaghe illazioni” (Piovani e Leghissa) o anche per una giusta “ricerca della verità” (Peschiera), si possa indebolire la figura del Capo dello Stato “in un momento drammatico” della vita democratica del nostro Paese. Si tratta della stessa obiezione che illustri commentatori hanno sviluppato con estremo vigore di fronte alle polemiche politiche divampate sulle telefonate del Colle.
Valga per tutti l’acuto grido di allarme di Eugenio Scalfari su Repubblica del 21 giugno scorso: “Si tenta di indebolire il Quirinale, non per queste ragioni pretestuose, ma per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti”.
I nostri lettori non arrivano a immaginare tali “oscure manovre”, ma il loro disagio è palpabile.
Ma come – rimproverano – Napolitano è stato l’unico baluardo allo strapotere di Berlusconi, quello che lo ha mandato a casa su due piedi e ora ve la prendete con lui mentre la destra “cerca di riguadagnare terreno” e l’Italia rischia la bancarotta? Potremmo rispondere che il grido “Annibale è alle porte” (anche quando non lo è) è sempre stato qui da noi l’alibi più efficace per nascondere piccole e grandi nafandezze.
E che, in nome dell’emergenza continua, nel nostro amato Paese si fanno e si disfano governi e, all’occorrenza, si tratta anche con Cosa Nostra. Questa volta, comunque, l’emergenza riguarda gran parte dell’Europa. Dove, tuttavia, non risulta che a causa della crisi dell’euro le istituzioni siano diventate improvvisamente intoccabili. Dentro la voragine bancaria, per esempio, la Spagna è andata tranquillamente a elezioni e l’amato re Juan Carlos, mazzolato dai giornali per gli allegri e costosi safari, ha dovuto chiedere scusa al popolo. In Islanda, il premier della bancarotta è finito giustamente in un’aula di tribunale. In Germania, il capo dello Stato è andato a casa per un piccolo prestito agevolato alla moglie. E perfino la catastrofica Grecia ha cambiato tre Parlamenti in pochi mesi senza per questo arrivare alla guerra civile.
Come si dice: è la democrazia, bellezza! Solo in Italia i politici furbacchioni, ogni volta che vengono presi in castagna, si mettono a strillare “fermi tutti che la casa brucia!” e magari l’incendio l’hanno appiccato loro. Non è il caso di Napolitano, ma del coro che lo circonda ogniqualvolta viene messo in discussione lo status quo, il potere costituito (da loro). E quindi, per quanto ci riguarda, non può esserci emergenza che tenga di fronte al nostro lavoro che consiste nel dare le notizie. Continueremo a pubblicarle sul Fatto senza domandarci a chi giovano e a chi no. Cari lettori, lo sapete, siamo giornalisti, non corazzieri ad honorem.
Il Fatto Quotidiano, 26 Giugno 2012
di Antonio Padellaro | 26 giugno 2012
Più che ai tanti messaggi di apprezzamento per gli articoli del Fatto sugli interventi debiti e indebiti del Quirinale nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, risponderò alle critiche di altri nostri lettori. Essi, in sostanza, esprimono il timore che per una “tempesta in un bicchier d’acqua” (Giglioli), per “vaghe illazioni” (Piovani e Leghissa) o anche per una giusta “ricerca della verità” (Peschiera), si possa indebolire la figura del Capo dello Stato “in un momento drammatico” della vita democratica del nostro Paese. Si tratta della stessa obiezione che illustri commentatori hanno sviluppato con estremo vigore di fronte alle polemiche politiche divampate sulle telefonate del Colle.
Valga per tutti l’acuto grido di allarme di Eugenio Scalfari su Repubblica del 21 giugno scorso: “Si tenta di indebolire il Quirinale, non per queste ragioni pretestuose, ma per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti”.
I nostri lettori non arrivano a immaginare tali “oscure manovre”, ma il loro disagio è palpabile.
Ma come – rimproverano – Napolitano è stato l’unico baluardo allo strapotere di Berlusconi, quello che lo ha mandato a casa su due piedi e ora ve la prendete con lui mentre la destra “cerca di riguadagnare terreno” e l’Italia rischia la bancarotta? Potremmo rispondere che il grido “Annibale è alle porte” (anche quando non lo è) è sempre stato qui da noi l’alibi più efficace per nascondere piccole e grandi nafandezze.
E che, in nome dell’emergenza continua, nel nostro amato Paese si fanno e si disfano governi e, all’occorrenza, si tratta anche con Cosa Nostra. Questa volta, comunque, l’emergenza riguarda gran parte dell’Europa. Dove, tuttavia, non risulta che a causa della crisi dell’euro le istituzioni siano diventate improvvisamente intoccabili. Dentro la voragine bancaria, per esempio, la Spagna è andata tranquillamente a elezioni e l’amato re Juan Carlos, mazzolato dai giornali per gli allegri e costosi safari, ha dovuto chiedere scusa al popolo. In Islanda, il premier della bancarotta è finito giustamente in un’aula di tribunale. In Germania, il capo dello Stato è andato a casa per un piccolo prestito agevolato alla moglie. E perfino la catastrofica Grecia ha cambiato tre Parlamenti in pochi mesi senza per questo arrivare alla guerra civile.
Come si dice: è la democrazia, bellezza! Solo in Italia i politici furbacchioni, ogni volta che vengono presi in castagna, si mettono a strillare “fermi tutti che la casa brucia!” e magari l’incendio l’hanno appiccato loro. Non è il caso di Napolitano, ma del coro che lo circonda ogniqualvolta viene messo in discussione lo status quo, il potere costituito (da loro). E quindi, per quanto ci riguarda, non può esserci emergenza che tenga di fronte al nostro lavoro che consiste nel dare le notizie. Continueremo a pubblicarle sul Fatto senza domandarci a chi giovano e a chi no. Cari lettori, lo sapete, siamo giornalisti, non corazzieri ad honorem.
Il Fatto Quotidiano, 26 Giugno 2012
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Re: Cittadino Presidente
Mafia e stato (d’animo)
di Marco Travaglio | 4 luglio 2012
Commenti (52)
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07 ... qus_thread
Si attendeva con ansia l’illuminato parere del professor Ernesto Galli nonché della Loggia sulla trattativa Stato-mafia e sulle pressioni del Quirinale per tentare di deviare il corso delle indagini. E ieri, finalmente, è arrivato sul Corriere della sera.
Anzitutto, sia chiaro che la trattativa è solo “supposta”, mentre le pressioni del Quirinale sono “presunte” e dunque le polemiche sono “infondate”. A due settimane dalla pubblicazione delle telefonate Mancino-D’Ambrosio, nessuno ha ancora indicato quale norma consenta al capo dello Stato e ai suoi consiglieri di ordinare il “coordinamento” delle indagini fra diverse Procure (peraltro già disposto dal Csm e da Grasso un anno fa). Ma queste – trattativa e pressioni – per Galli della Loggia sono quisquilie. Il “dato centrale” delle telefonate è un altro: “lo stato d’animo di Mancino”. L’ex ministro dell’Interno, presidente della Camera e vicepresidente del Csm, ora privato cittadino ma speciale, al punto di potersi lamentare col capo dello Stato dei pm che lo interrogano, “non è per nulla tranquillo… posseduto da un’inquietudine angosciosa, molto simile alla paura… Paura di essere ‘incastrato’ dai magistrati che conducono l’indagine… di diventare vittima di qualche loro ‘teorema’, di un loro partito preso che lo trasformi da testimone in imputato”. Infatti di lì a poco lo divenne, per falsa testimonianza.
Un ingenuo dirà: se non sta bene, si prenda un tranquillante; se invece ha qualcosa sulla coscienza, se ne liberi. Invece no: Galli della Loggia e il Corriere che lo ospita in prima pagina hanno deciso di infangare tutta la magistratura inquirente del Paese, accusandola di condotte gravissime, criminali, eversive: la paura di Mancino non è “un mero fatto personale”, ma “la spia di una condizione generale del Paese”.
Chissà che gente frequenta, Galli della Loggia: a suo avviso, 60 milioni di italiani han paura come Mancino. E di che? Delle tasse? Delle banche? Della disoccupazione? Di non arrivare a fine mese? Della mafia? No, di tutti i pm, che com’è noto passano il tempo a “incastrare” il primo che passa per la strada per poterlo accusare di aver trattato con la mafia o di aver mentito sulla trattativa.
Supposta, s’intende. “Alzi la mano chi, nelle sue condizioni, non avrebbe gli stessi timori”.
Dite la verità, cari amici che leggete questo articolo: chi di voi non ha mai temuto di essere incastrato nelle trattativa Stato-mafia?
Ergo, i partiti si liberino al più presto del “timore di passare per ‘nemici dei giudici’” e riformino su due piedi la giustizia, anzi “l’accusa”, cioè “le “Procure” perché la smettano di incastrare e spaventare milioni di piccoli Mancino.
Il solito ingenuo dirà: ma per non finire indagati, pardon “incastrati” per falsa testimonianza sulla trattativa basta non mentire sulla trattativa. Certo, ma andatelo a spiegare a Galli nonché della Loggia. Lui non sa (non legge nemmeno il suo giornale) che Mancino è indagato non in base a un “teorema”, ma in seguito alle due bugie che è accusato di aver raccontato al processo Mori. Primo: dice che nel giugno ‘92, quando stava per diventare ministro dell’Interno al posto di Scotti, lo pregò in ginocchio di restare al Viminale. Peccato che Scotti lo smentisca. Secondo: dice che mai Martelli l’avvertì dei contatti border line del Ros con Ciancimino. Peccato che Martelli lo smentisca.
Non contento, dice pure di non aver saputo nulla del mancato rinnovo del 41bis a 334 mafiosi da parte di Conso nel novembre ‘93. Strano, perché in agosto la Dia l’aveva avvertito con una nota riservata firmata da Gianni De Gennaro che le stragi di luglio erano finalizzate a una trattativa per ammorbidire il 41bis e qualsiasi cedimento su quel fronte sarebbe stato letto dai boss come una resa dello Stato e avrebbe prodotto altre stragi.
Ma tutto questo Galli non lo sa, e nemmeno della Loggia. Infatti scrive che “tutto porta a escludere” che Mancino “sia responsabile di qualcosa”. Tipico intellettuale di un Paese dove la mafia è sempre certa, ma lo Stato no. Al massimo, è uno Stato d’animo.
Il Fatto Quotidiano, 4 Luglio 2012
di Marco Travaglio | 4 luglio 2012
Commenti (52)
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Si attendeva con ansia l’illuminato parere del professor Ernesto Galli nonché della Loggia sulla trattativa Stato-mafia e sulle pressioni del Quirinale per tentare di deviare il corso delle indagini. E ieri, finalmente, è arrivato sul Corriere della sera.
Anzitutto, sia chiaro che la trattativa è solo “supposta”, mentre le pressioni del Quirinale sono “presunte” e dunque le polemiche sono “infondate”. A due settimane dalla pubblicazione delle telefonate Mancino-D’Ambrosio, nessuno ha ancora indicato quale norma consenta al capo dello Stato e ai suoi consiglieri di ordinare il “coordinamento” delle indagini fra diverse Procure (peraltro già disposto dal Csm e da Grasso un anno fa). Ma queste – trattativa e pressioni – per Galli della Loggia sono quisquilie. Il “dato centrale” delle telefonate è un altro: “lo stato d’animo di Mancino”. L’ex ministro dell’Interno, presidente della Camera e vicepresidente del Csm, ora privato cittadino ma speciale, al punto di potersi lamentare col capo dello Stato dei pm che lo interrogano, “non è per nulla tranquillo… posseduto da un’inquietudine angosciosa, molto simile alla paura… Paura di essere ‘incastrato’ dai magistrati che conducono l’indagine… di diventare vittima di qualche loro ‘teorema’, di un loro partito preso che lo trasformi da testimone in imputato”. Infatti di lì a poco lo divenne, per falsa testimonianza.
Un ingenuo dirà: se non sta bene, si prenda un tranquillante; se invece ha qualcosa sulla coscienza, se ne liberi. Invece no: Galli della Loggia e il Corriere che lo ospita in prima pagina hanno deciso di infangare tutta la magistratura inquirente del Paese, accusandola di condotte gravissime, criminali, eversive: la paura di Mancino non è “un mero fatto personale”, ma “la spia di una condizione generale del Paese”.
Chissà che gente frequenta, Galli della Loggia: a suo avviso, 60 milioni di italiani han paura come Mancino. E di che? Delle tasse? Delle banche? Della disoccupazione? Di non arrivare a fine mese? Della mafia? No, di tutti i pm, che com’è noto passano il tempo a “incastrare” il primo che passa per la strada per poterlo accusare di aver trattato con la mafia o di aver mentito sulla trattativa.
Supposta, s’intende. “Alzi la mano chi, nelle sue condizioni, non avrebbe gli stessi timori”.
Dite la verità, cari amici che leggete questo articolo: chi di voi non ha mai temuto di essere incastrato nelle trattativa Stato-mafia?
Ergo, i partiti si liberino al più presto del “timore di passare per ‘nemici dei giudici’” e riformino su due piedi la giustizia, anzi “l’accusa”, cioè “le “Procure” perché la smettano di incastrare e spaventare milioni di piccoli Mancino.
Il solito ingenuo dirà: ma per non finire indagati, pardon “incastrati” per falsa testimonianza sulla trattativa basta non mentire sulla trattativa. Certo, ma andatelo a spiegare a Galli nonché della Loggia. Lui non sa (non legge nemmeno il suo giornale) che Mancino è indagato non in base a un “teorema”, ma in seguito alle due bugie che è accusato di aver raccontato al processo Mori. Primo: dice che nel giugno ‘92, quando stava per diventare ministro dell’Interno al posto di Scotti, lo pregò in ginocchio di restare al Viminale. Peccato che Scotti lo smentisca. Secondo: dice che mai Martelli l’avvertì dei contatti border line del Ros con Ciancimino. Peccato che Martelli lo smentisca.
Non contento, dice pure di non aver saputo nulla del mancato rinnovo del 41bis a 334 mafiosi da parte di Conso nel novembre ‘93. Strano, perché in agosto la Dia l’aveva avvertito con una nota riservata firmata da Gianni De Gennaro che le stragi di luglio erano finalizzate a una trattativa per ammorbidire il 41bis e qualsiasi cedimento su quel fronte sarebbe stato letto dai boss come una resa dello Stato e avrebbe prodotto altre stragi.
Ma tutto questo Galli non lo sa, e nemmeno della Loggia. Infatti scrive che “tutto porta a escludere” che Mancino “sia responsabile di qualcosa”. Tipico intellettuale di un Paese dove la mafia è sempre certa, ma lo Stato no. Al massimo, è uno Stato d’animo.
Il Fatto Quotidiano, 4 Luglio 2012
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Re: Cittadino Presidente
La paura di Mancino di essere incastrato, ci dice che razza di giudici abbiamo in Italia
Luglio 3, 2012 Redazione
Quando finisci nelle mani del circuito mediatico-giudiziario (che s’ammanta di cultura delle legalità), hai paura.
Ma fino ad allora non dici nulla per non essere confuso con un berlusconiano. Acuto editoriale di Ernesto Galli della Loggia:
«Lo stato d’animo di Mancino», ecco qual è, secondo il professore Ernersto Galli Della Loggia, il dato centrale delle telefonate intercorse tra l’ex ministro e il consigliere giudiziario del Quirinale. Nell’editoriale che appare oggi sul Corriere della Sera (“Lo stato d’animo di un testimone”), Galli Della Loggia mette sotto il cono di luce un aspetto della vicenda (e delle polemiche) sulla presunta trattativa Stato-Mafia finora rimasto nell’ombra.
Scrive Della Loggia: «Mancino in quel momento non è indagato. Come ex ministro dell’Interno all’epoca della supposta trattativa tra lo Stato e la mafia che sarebbe intercorsa nel 1992-93, egli è un semplice testimone. Un semplice testimone, già ascoltato dagli inquirenti. Ma dalle sue parole si capisce che non è per nulla tranquillo. Che è posseduto, anzi, da un’inquietudine angosciosa molto simile alla paura. Di che cosa ha paura Nicola Mancino? Mi scuserà se lo dico alla buona: ha paura di essere «incastrato» dai magistrati che conducono l’indagine. Cioè di diventare vittima di un qualche loro “teorema”, di un loro partito preso che lo trasformi da testimone in imputato».
Ciò che Galli Della Loggia acutamente annota è che tale turbamento non è dovuto al fatto di «essere “scoperto”: [Mancino] ha semplicemente paura dei meccanismi inquirenti della macchina giudiziaria italiana (cioè non dei tribunali, ma delle procure. Non ha paura cioè della “giustizia”, come invece piace fraintendere alla retorica giustizialista, bensì dell’Accusa, che è cosa assai diversa). Di come troppo spesso funzionano i meccanismi dell’Accusa, del modo d’essere dei suoi rappresentanti, delle loro motivazioni inconfessate e inconfessabili, dei loro pregiudizi».
Cosa c’è di straordinario in tutta questa vicenda? C’è il fatto che «oggi, grazie solo a delle intercettazioni telefoniche, si viene a scoprire che anche colui il quale per lunghi anni è stato alla testa della macchina della giustizia italiana, che ne ha conosciuto come pochi il funzionamento, e soprattutto la mentalità, i sentimenti, e le pulsioni degli addetti, anche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino, anche lui uomo del centrosinistra, pensa ciò che in tanti pensiamo delle profonde distorsioni che troppo spesso, quasi fisiologicamente, caratterizzano l’operato delle procure della Repubblica. E ne ha paura».
La paura. Questo è il sentimento nei confronti di certe procure del «maggior numero dei membri del Parlamento italiano e degli uomini dei partiti del centrosinistra. Che però non se la sentono di dirlo — allo stesso modo, del resto, come non ha mai detto nulla neppure Nicola Mancino prima che gli capitasse di averne direttamente a che fare — per il timore di passare da “nemici dei giudici”, e dunque, in forza di una delle più malefiche proprietà transitive della politica italiana, per “amici di Berlusconi”».
Ed ecco il finale dell’editoriale di Galli Della Loggia: «Ma è ora che i magistrati italiani — e sono certamente i più — i quali hanno davvero a cuore la giustizia sappiano che è su questa finzione collettiva, è su questo autoinganno dettato dalla paura, che in realtà poggia la cosiddetta “cultura della legalità” di cui tutta l’Italia ufficiale si riempie ad ogni occasione la bocca. Peraltro augurandosi in cuor suo (o quando suppone di parlare al riparo da orecchie indiscrete) che non le capiti mai di doverne conoscere la realtà».
http://www.tempi.it/la-paura-di-mancino ... z1zh2SWhaQ
Luglio 3, 2012 Redazione
Quando finisci nelle mani del circuito mediatico-giudiziario (che s’ammanta di cultura delle legalità), hai paura.
Ma fino ad allora non dici nulla per non essere confuso con un berlusconiano. Acuto editoriale di Ernesto Galli della Loggia:
«Lo stato d’animo di Mancino», ecco qual è, secondo il professore Ernersto Galli Della Loggia, il dato centrale delle telefonate intercorse tra l’ex ministro e il consigliere giudiziario del Quirinale. Nell’editoriale che appare oggi sul Corriere della Sera (“Lo stato d’animo di un testimone”), Galli Della Loggia mette sotto il cono di luce un aspetto della vicenda (e delle polemiche) sulla presunta trattativa Stato-Mafia finora rimasto nell’ombra.
Scrive Della Loggia: «Mancino in quel momento non è indagato. Come ex ministro dell’Interno all’epoca della supposta trattativa tra lo Stato e la mafia che sarebbe intercorsa nel 1992-93, egli è un semplice testimone. Un semplice testimone, già ascoltato dagli inquirenti. Ma dalle sue parole si capisce che non è per nulla tranquillo. Che è posseduto, anzi, da un’inquietudine angosciosa molto simile alla paura. Di che cosa ha paura Nicola Mancino? Mi scuserà se lo dico alla buona: ha paura di essere «incastrato» dai magistrati che conducono l’indagine. Cioè di diventare vittima di un qualche loro “teorema”, di un loro partito preso che lo trasformi da testimone in imputato».
Ciò che Galli Della Loggia acutamente annota è che tale turbamento non è dovuto al fatto di «essere “scoperto”: [Mancino] ha semplicemente paura dei meccanismi inquirenti della macchina giudiziaria italiana (cioè non dei tribunali, ma delle procure. Non ha paura cioè della “giustizia”, come invece piace fraintendere alla retorica giustizialista, bensì dell’Accusa, che è cosa assai diversa). Di come troppo spesso funzionano i meccanismi dell’Accusa, del modo d’essere dei suoi rappresentanti, delle loro motivazioni inconfessate e inconfessabili, dei loro pregiudizi».
Cosa c’è di straordinario in tutta questa vicenda? C’è il fatto che «oggi, grazie solo a delle intercettazioni telefoniche, si viene a scoprire che anche colui il quale per lunghi anni è stato alla testa della macchina della giustizia italiana, che ne ha conosciuto come pochi il funzionamento, e soprattutto la mentalità, i sentimenti, e le pulsioni degli addetti, anche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino, anche lui uomo del centrosinistra, pensa ciò che in tanti pensiamo delle profonde distorsioni che troppo spesso, quasi fisiologicamente, caratterizzano l’operato delle procure della Repubblica. E ne ha paura».
La paura. Questo è il sentimento nei confronti di certe procure del «maggior numero dei membri del Parlamento italiano e degli uomini dei partiti del centrosinistra. Che però non se la sentono di dirlo — allo stesso modo, del resto, come non ha mai detto nulla neppure Nicola Mancino prima che gli capitasse di averne direttamente a che fare — per il timore di passare da “nemici dei giudici”, e dunque, in forza di una delle più malefiche proprietà transitive della politica italiana, per “amici di Berlusconi”».
Ed ecco il finale dell’editoriale di Galli Della Loggia: «Ma è ora che i magistrati italiani — e sono certamente i più — i quali hanno davvero a cuore la giustizia sappiano che è su questa finzione collettiva, è su questo autoinganno dettato dalla paura, che in realtà poggia la cosiddetta “cultura della legalità” di cui tutta l’Italia ufficiale si riempie ad ogni occasione la bocca. Peraltro augurandosi in cuor suo (o quando suppone di parlare al riparo da orecchie indiscrete) che non le capiti mai di doverne conoscere la realtà».
http://www.tempi.it/la-paura-di-mancino ... z1zh2SWhaQ
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Re: Cittadino Presidente
Corriere della Sera > Opinioni > Lo stato d’animo di un ex ministro
IL CASO MANCINO
Lo stato d’animo di un ex ministro
Nelle intercettazioni delle telefonate tra l'ex ministro Nicola Mancino e il consigliere giudiziario della Presidenza della Repubblica D'Ambrosio, divulgate qualche giorno fa, c'è un aspetto inquietante che è passato però del tutto inosservato. L'infondata polemica sulle presunte pressioni del Quirinale nei confronti della magistratura siciliana, infatti, ha oscurato quello che a mio giudizio è il dato centrale di quelle telefonate: e cioè lo stato d'animo di Mancino.
Stato d'animo che lungi dal rappresentare un mero fatto personale, appare invece, molto verosimilmente come la spia di una condizione generale del Paese: ed è per ciò, solo per ciò, che qui se ne parla.
Ricapitolo in due righe. Mancino in quel momento non è indagato. Come ex ministro dell'Interno all'epoca della supposta trattativa tra lo Stato e la mafia che sarebbe intercorsa nel 1992-93, egli è un semplice testimone. Un semplice testimone, già ascoltato dagli inquirenti. Ma dalle sue parole si capisce che non è per nulla tranquillo. Che è posseduto, anzi, da un'inquietudine angosciosa molto simile alla paura. Di che cosa ha paura Nicola Mancino? Mi scuserà se lo dico alla buona: ha paura di essere «incastrato» dai magistrati che conducono l'indagine. Cioè di diventare vittima di un qualche loro «teorema», di un loro partito preso che lo trasformi da testimone in imputato. Da qui il suo smarrimento: «Io non lo so dove vogliono andare a finire...20 anni, 25 anni...» (è il tempo ormai trascorso dai presunti reati); «non si sa dove vogliono arrivare, questi, che vogliono fare...»; «...ma che razza di Paese è?»; «una persona che ha fatto il suo dovere...ma perché devo essere messo in un angolo?»; «ora facciamo pagare a Mancino...ma Mancino può essere anche emarginato, ma non è giusto» (come sul Corriere annota accuratamente Giovanni Bianconi, Mancino «sospettava che qualcuno volesse prendersi la rivincita su di lui per il caso de Magistris, l'ex magistrato messo sotto inchiesta al Csm quando lui ne era il vicepresidente»); «a mio avviso c'è un abuso grande come una montagna...»; «perché la cosa è terribile...ecco...perché a me fa perdere non solo il sonno, ma anche, diciamo...».
Mancino dunque è turbato e ha paura. Forse perché è davvero responsabile di qualcosa? Lo si potrebbe credere anche se tutto porta ad escluderlo: non da ultimo il fatto che a distanza di mesi e mesi egli non è ancora indagato di alcun reato. In realtà, Mancino non ha paura di essere «scoperto»: ha semplicemente paura dei meccanismi inquirenti della macchina giudiziaria italiana (cioè non dei tribunali, ma delle procure. Non ha paura cioè della «giustizia», come invece piace fraintendere alla retorica giustizialista, bensì dell'Accusa, che è cosa assai diversa). Di come troppo spesso funzionano i meccanismi dell'Accusa, del modo d'essere dei suoi rappresentanti, delle loro motivazioni inconfessate e inconfessabili, dei loro pregiudizi. Apparentemente non c'è proprio nulla di così straordinario. Alzi la mano, infatti, chi nelle sue condizioni non avrebbe gli stessi timori, chi ignora che precisamente questa è l'immagine che la stragrande maggioranza degli italiani ha della macchina della giustizia del suo Paese.
E invece qualcosa di straordinario c'è. Oggi infatti, grazie solo a delle intercettazioni telefoniche, si viene a scoprire che anche colui il quale per lunghi anni è stato alla testa della macchina della giustizia italiana, che ne ha conosciuto come pochi il funzionamento, e soprattutto la mentalità, i sentimenti, e le pulsioni degli addetti, anche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino, anche lui uomo del centrosinistra, pensa ciò che in tanti pensiamo delle profonde distorsioni che troppo spesso, quasi fisiologicamente, caratterizzano l'operato delle procure della Repubblica. E ne ha paura.
Così come sono convinto che sappia benissimo come stanno le cose, e ne abbia altrettanta paura, il maggior numero dei membri del Parlamento italiano e degli uomini dei partiti del centrosinistra. Che però non se la sentono di dirlo - allo stesso modo, del resto, come non ha mai detto nulla neppure Nicola Mancino prima che gli capitasse di averne direttamente a che fare - per il timore di passare da «nemici dei giudici», e dunque, in forza di una delle più malefiche proprietà transitive della politica italiana, per «amici di Berlusconi». Ma è ora che i magistrati italiani - e sono certamente i più - i quali hanno davvero a cuore la giustizia sappiano che è su questa finzione collettiva, è su questo autoinganno dettato dalla paura, che in realtà poggia la cosiddetta «cultura della legalità» di cui tutta l'Italia ufficiale si riempie ad ogni occasione la bocca. Peraltro augurandosi in cuor suo (o quando suppone di parlare al riparo da orecchie indiscrete) che non le capiti mai di doverne conoscere la realtà.
Ernesto Galli Della Loggia
3 luglio 2012 (modifica il 4 luglio 2012)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/opinioni/12_lugl ... da70.shtml
IL CASO MANCINO
Lo stato d’animo di un ex ministro
Nelle intercettazioni delle telefonate tra l'ex ministro Nicola Mancino e il consigliere giudiziario della Presidenza della Repubblica D'Ambrosio, divulgate qualche giorno fa, c'è un aspetto inquietante che è passato però del tutto inosservato. L'infondata polemica sulle presunte pressioni del Quirinale nei confronti della magistratura siciliana, infatti, ha oscurato quello che a mio giudizio è il dato centrale di quelle telefonate: e cioè lo stato d'animo di Mancino.
Stato d'animo che lungi dal rappresentare un mero fatto personale, appare invece, molto verosimilmente come la spia di una condizione generale del Paese: ed è per ciò, solo per ciò, che qui se ne parla.
Ricapitolo in due righe. Mancino in quel momento non è indagato. Come ex ministro dell'Interno all'epoca della supposta trattativa tra lo Stato e la mafia che sarebbe intercorsa nel 1992-93, egli è un semplice testimone. Un semplice testimone, già ascoltato dagli inquirenti. Ma dalle sue parole si capisce che non è per nulla tranquillo. Che è posseduto, anzi, da un'inquietudine angosciosa molto simile alla paura. Di che cosa ha paura Nicola Mancino? Mi scuserà se lo dico alla buona: ha paura di essere «incastrato» dai magistrati che conducono l'indagine. Cioè di diventare vittima di un qualche loro «teorema», di un loro partito preso che lo trasformi da testimone in imputato. Da qui il suo smarrimento: «Io non lo so dove vogliono andare a finire...20 anni, 25 anni...» (è il tempo ormai trascorso dai presunti reati); «non si sa dove vogliono arrivare, questi, che vogliono fare...»; «...ma che razza di Paese è?»; «una persona che ha fatto il suo dovere...ma perché devo essere messo in un angolo?»; «ora facciamo pagare a Mancino...ma Mancino può essere anche emarginato, ma non è giusto» (come sul Corriere annota accuratamente Giovanni Bianconi, Mancino «sospettava che qualcuno volesse prendersi la rivincita su di lui per il caso de Magistris, l'ex magistrato messo sotto inchiesta al Csm quando lui ne era il vicepresidente»); «a mio avviso c'è un abuso grande come una montagna...»; «perché la cosa è terribile...ecco...perché a me fa perdere non solo il sonno, ma anche, diciamo...».
Mancino dunque è turbato e ha paura. Forse perché è davvero responsabile di qualcosa? Lo si potrebbe credere anche se tutto porta ad escluderlo: non da ultimo il fatto che a distanza di mesi e mesi egli non è ancora indagato di alcun reato. In realtà, Mancino non ha paura di essere «scoperto»: ha semplicemente paura dei meccanismi inquirenti della macchina giudiziaria italiana (cioè non dei tribunali, ma delle procure. Non ha paura cioè della «giustizia», come invece piace fraintendere alla retorica giustizialista, bensì dell'Accusa, che è cosa assai diversa). Di come troppo spesso funzionano i meccanismi dell'Accusa, del modo d'essere dei suoi rappresentanti, delle loro motivazioni inconfessate e inconfessabili, dei loro pregiudizi. Apparentemente non c'è proprio nulla di così straordinario. Alzi la mano, infatti, chi nelle sue condizioni non avrebbe gli stessi timori, chi ignora che precisamente questa è l'immagine che la stragrande maggioranza degli italiani ha della macchina della giustizia del suo Paese.
E invece qualcosa di straordinario c'è. Oggi infatti, grazie solo a delle intercettazioni telefoniche, si viene a scoprire che anche colui il quale per lunghi anni è stato alla testa della macchina della giustizia italiana, che ne ha conosciuto come pochi il funzionamento, e soprattutto la mentalità, i sentimenti, e le pulsioni degli addetti, anche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino, anche lui uomo del centrosinistra, pensa ciò che in tanti pensiamo delle profonde distorsioni che troppo spesso, quasi fisiologicamente, caratterizzano l'operato delle procure della Repubblica. E ne ha paura.
Così come sono convinto che sappia benissimo come stanno le cose, e ne abbia altrettanta paura, il maggior numero dei membri del Parlamento italiano e degli uomini dei partiti del centrosinistra. Che però non se la sentono di dirlo - allo stesso modo, del resto, come non ha mai detto nulla neppure Nicola Mancino prima che gli capitasse di averne direttamente a che fare - per il timore di passare da «nemici dei giudici», e dunque, in forza di una delle più malefiche proprietà transitive della politica italiana, per «amici di Berlusconi». Ma è ora che i magistrati italiani - e sono certamente i più - i quali hanno davvero a cuore la giustizia sappiano che è su questa finzione collettiva, è su questo autoinganno dettato dalla paura, che in realtà poggia la cosiddetta «cultura della legalità» di cui tutta l'Italia ufficiale si riempie ad ogni occasione la bocca. Peraltro augurandosi in cuor suo (o quando suppone di parlare al riparo da orecchie indiscrete) che non le capiti mai di doverne conoscere la realtà.
Ernesto Galli Della Loggia
3 luglio 2012 (modifica il 4 luglio 2012)
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http://www.corriere.it/opinioni/12_lugl ... da70.shtml
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Re: Cittadino Presidente
Franco Cordero, è un vecchio collaboratore de La Repubblica, uno di quei giuristi che uno dei personaggi di “Così parlò Bellavista” oserebbe precisare: “Ogni volta che parla è cassazione…”
Franco Cordero
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Franco Cordero (Cuneo, 1928) è un giurista e scrittore italiano. Cordero è autore prolifico, non solo di testi giuridici e saggi, ma anche di romanzi e pamphlet.
Ma evidentemente visto l’orientamento del quotidiano romano ha preferito rilasciare il suo parere a Silvia Truzzi de Il Fatto Quotidiano, presente nella rassegna stampa del ministero dell’Interno dell’altro ieri 3 luglio 2012.
Il giurista torinese sostiene:
“TRATTATIVA, IL QUIRINALE NON DOVEVA INTERVENIRE”
“Sulle intercettazioni gaffe del Presidente”
“Spero che l’inchiesta di Palermo sfoci in un processo e una sentenza”
“Non abbiamo trattato con le Br: e con cosa nostra?”
Franco Cordero
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Franco Cordero (Cuneo, 1928) è un giurista e scrittore italiano. Cordero è autore prolifico, non solo di testi giuridici e saggi, ma anche di romanzi e pamphlet.
Ma evidentemente visto l’orientamento del quotidiano romano ha preferito rilasciare il suo parere a Silvia Truzzi de Il Fatto Quotidiano, presente nella rassegna stampa del ministero dell’Interno dell’altro ieri 3 luglio 2012.
Il giurista torinese sostiene:
“TRATTATIVA, IL QUIRINALE NON DOVEVA INTERVENIRE”
“Sulle intercettazioni gaffe del Presidente”
“Spero che l’inchiesta di Palermo sfoci in un processo e una sentenza”
“Non abbiamo trattato con le Br: e con cosa nostra?”
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